introduzione
Ho messo mano a questo racconto dopo tre anni dalla sua stesura. Sono stata tentata di renderlo attuale modificando la sintassi in modo da avvicinarlo a come scrivo ora. In parte l’ho fatto, ma non del tutto: ho deciso di trattenermi perché sconvolgendo la forma avrei rischiato di sconvolgere indirettamente anche il contenuto.
Questo racconto è diretto, disperato, stanco: così voglio che rimanga.
“Linee Sottili” nasce nel 2017, è stato scritto in ordine cronologico dopo “Tempo Tiranno” e lì è rimasto all’interno della raccolta.
Chiunque tu sia, se adesso ti trovi nello stesso posto dove Alice si trovava in quei giorni, non sei solo.
C’è una linea incredibilmente sottile tra l’essere solitari e l’essere soli, così come c’è una linea incredibilmente sottile tra il sentirsi soli e il credersi solitari.
Le linee sottili che si incontrano nel corso della vita sono tante e variopinte. Esiste forse una distinzione netta tra il bene e il male? O tra la gioia e il dolore? Tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato? Tra resilienza e sopportazione?
No, una differenza spiccata non esiste.
Ma tu ed io, chi siamo?
Esseri umani, custodi di tesi e antitesi immersi in una furiosa ricerca della nostra identità.
Nel barcamenarci tra le luci e le ombre della vita, dimentichiamo.
Dimentichiamo le linee sottili, dimentichiamo la nostra natura dinamica, sempre in movimento, a favore del desiderio di essere statici. Come piante.
Insoddisfatti.
Non è ovvio?
Abbracciamo l’insoddisfazione di cui ci lamentiamo.
Mutiamo le nostre opinioni solo per scoprirci scocciati dal cambiamento; ricerchiamo l’abitudine ed osserviamo il mondo come se fosse intriso di immobilità, questa è l’unica grande certezza.
Persone, luoghi, attimi, sospiri, conversazioni: di essi creiamo figure, dipinti e fotografie, così da catturare l’eterno in un infinitesimo.
Ci pensiamo vittoriosi quando cadiamo nell’illusione di controllare una realtà dinamica.
Non risulta ovvio, adesso, il motivo dell’insoddisfazione?
Con arroganza ci riteniamo capaci dell’impossibile.
Quale pretesa quella di conoscere – capire – ogni smorfia che passa sul volto di chi abbiamo di fronte, quando è in realtà solo una prima superficiale impressione.
E lasciatemelo pensare: quel primo sguardo non basta certo a capire cosa celino gli occhi nella loro profondità.
Ma ho perso il mio concetto di apertura: le linee sottili.
Da ragazza sognavo una vita idilliaca: ognuno supereroe di sé stesso, non immune alle difficoltà, ma sempre capace di portarsi a galla autonomamente. L’essere una persona solitaria, in questa utopica visione, è la condizione ideale per salvarsi da soli, con le proprie forze, di fronte a qualsiasi pericolo. Scontato il fatto che trovassi un fascino unico nell’essere una persona solitaria.
Con gli anni ho conosciuto il rovescio della medaglia.
Solitudine è invisibilità,
poter essere rapidamente dimenticati,
quasi volerlo.
L’ho desiderato per anni.
Il potere di diventare invisibile.
Tutti i supereroi hanno dei poteri, e pur di non affrontare la vita, cosa poteva esistere di più semplice di svanire?
Ma oggi, nel presente, mentre sono in riva al lago?
Forse è per questo che sono davvero sparita. O forse mi sento sparita.
Ho trovato un’altra linea sottile.
Osservo questa primavera ordinaria, soleggiata, un po’ banale. Anche se rimane uno dei miei periodi preferiti semplicemente perché le persone sembrano pervase solo da buon umore, in primavera.
Mi sento meno sola, in primavera.
È come se i primi, freschi colori della natura carezzassero il viso delle persone con gentilezza, predisponendole a fare altrettanto.
A scanso di equivoci: io amo l’inverno; non riesco tuttavia a scacciare la sensazione che, con il freddo nelle ossa, molti colleghi esseri umani siano più scortesi.
La primavera porta la predisposizione al sorriso.
Sto perdendo di nuovo la bussola.
Domenica sette aprile, la primavera soleggiata un po’ banale, ed un lago verde-azzurro che gioca con le montagne ed il riflesso degli alberi. Di tanto in tanto passa anche una nuvoletta candida ad ombreggiare le persone che sono distese sulla riva ed i bambini che schiamazzano allegri.
Sono qui perché mi sono imposta un atto di coraggio: ho improvvisato un’ambientazione inconsueta per questa giornata, accettando l’invito di un gruppo di amiche. Non sono solita immergermi nella natura, soprattutto se meta di pellegrinaggio di troppe persone. Gli unici luoghi affollati che apprezzo sono quelli dove è facile risultare anonimi, come le metropoli.
Questa mattina tuttavia, quando Vittoria mi ha telefonato con genuino entusiasmo cercando di coinvolgermi, spinta da senso di dovere interiore più che da una reale voglia di stare in compagnia, ho accettato di partecipare.
O forse non è dovere, volevo farlo…
davvero?
Si, questa sarebbe la risposta, se fossi sempre io.
È così che appare la solita linea sottile tra essere solitari ed essere soli.
Non ho mai capito come sono passata da una cosa all’altra. Sarebbe meglio dire che non so come sia arrivata a sentirmi accompagnata dalla solitudine, quella vera, quella a cui non interessa quanti siano gli occhi che brillano intorno a te – e a lei – perché non accetta terzi incomodi, a lei appartengo in un modo che, non posso far a meno di pensare, sia irreversibile.
Ho immagini sbiadite nella memoria per quanto riguarda gli anni passati, ricordo solo una cosa chiaramente: ero molto diversa. Mi gettavo letteralmente al centro dell’attenzione, mi piaceva essere protagonista, e più di ogni altra cosa ero felice di non essere invisibile. All’epoca mi raccontavo di essere una ragazza riservata, a cui piaceva stare in disparte ed essere poco visibile, ma allo stesso tempo sapevo che non era la verità.
Anche se a volte mi sentivo a disagio – un’altra linea sottile? –.
Ero timida, ma sfrontatamente spavalda.
Spesso mi domando cosa pensino di me le anime che mi circondano.
O forse mi chiedo tanto intensamente cosa abbia fatto a me stessa, da immaginare che anche gli altri facciano altrettanto.
Osservandomi riflessa nei loro occhi vedo una cosa sola: ho perso interesse, sono diventata egoista, scorbutica, solitaria.
Non provo più affetto.
Che cos’è l’affetto?
Ho amicizie che durano da un’intera vita. Le ragazze là sul lago, a pochi metri da me, mi conoscono da quando eravamo bambine. Si sentiranno offese dai miei nuovi comportamenti? Credo di sì.
La mia realtà si manifesta di fronte a loro in tutta la sua illusoria staticità, lasciando come fotografia solo ciò che possono intuire dal mio silenzio.
I loro occhi non mentono, e le sensazioni sotto la mia pelle neanche: con tutta l’umiltà del mondo non voglio sprecare il loro – e il mio – tempo nel provare a spiegare che in un qualche modo molto articolato gli voglio bene, anche se non sono più capace di sentire, perché non è quello il problema.
La colpa è solo della solitudine.
In tutta sincerità non capisco perché continuino a provarci con me, non si danno per vinte: non si sono arrese al disinteresse, alla mia palese inutilità quando deve essere portata avanti una discussione.
Continuano ad invitarmi anche se non accetto mai.
Mai, tranne oggi, perché oggi sono qui, sono in riva al lago.
Esisto?
In questo momento sono in disparte: mi sono allontanata con l’intramontabile scusa di fare una telefonata. In realtà ho solo bisogno del conforto dell’isolamento. Una pausa dallo sforzo di ascoltare la conversazione. Anche se la telefonata immaginaria è terminata da alcuni minuti sono rimasta a lanciare sassolini nel lago. Butto rapide occhiate verso le ragazze, la vita scorre tranquilla: c’è chi sonnecchia, chi gioca a carte, chi ride su qualche battuta.
E così accade: vedo me stessa dall’esterno.
Mi alzo in piedi e raggiungo il gruppo lentamente. Francesca alza lo sguardo verso di me per chiedermi se ricordo quando da bambine i nostri genitori ci portarono in questo stesso posto. L’immagine di giorni passati scalda lievemente qualcosa dentro di me.
Passano pochi minuti e rido, rido tantissimo, con la testa tirata indietro e la bocca aperta, perché Francesca sta raccontando di quella vecchia caduta dentro l’acqua: piedi bagnati ed un’intera giornata con le scarpe zuppe, senza dirlo ai genitori.
Perché non mi lascio alle spalle i tormenti che mi impediscono di mettere entrambe le orecchie a disposizione dei miei interlocutori? Sembra semplice.
Mi osservo ancora dall’esterno: vedo me stessa iniziare una conversazione vera, non ho paura di parlare, le mie parole hanno valore, non sono vuote – non le sento vuote –.
È così che scorre una leggera giornata di primavera sulla riva di un lago per chi non ha paura di vivere.
Potrei ricominciare da qui,
punto e a capo: senza paura di sbagliare, senza giustificare quello a cui la solitudine mi ha condannato, senza chiedermi cosa pensino le mie amiche del mio cambiamento.
Per questo oggi ho accettato l’invito: per ricominciare.
Ma il vero slancio di coraggio, quello che mi farebbe davvero alzare in piedi e non immaginarmi di farlo, mi manca.
Una linea sottile.
Smetto di osservare le mie fantasie.
Sono sempre sola in riva al lago a lanciare sassolini.
Mi chiedo ancora, per una centesima volta, come diavolo abbia fatto a lasciarmi lusingare in questo modo dalla solitudine e perché, semplicemente, non cambio atteggiamento.
Perché non posso.
Ci provo, ci ho provato oggi venendo al lago, ho rotto uno schema, ma non sento niente.
Ripenso a stamani mattina. Prima di partire mi sono chiesta se fossi felice della scelta di uscire, o se quella rottura mi avrebbe solo – profondamente – turbata.
Vorrei scomparire, rompere quella linea sottile, cedere, cadere.
Potrei fare come i codardi, quelli che si arrendono.
Ma…
Non sono a casa nel mio letto, sono al lago.
Qualcosa più forte del pensiero e del tormento, più forte dell’abbraccio della solitudine, mi tiene accesa, flebile, in piedi dall’altro lato della linea.
Con la delicatezza e la tranquillità di una piuma che cade, mi suggerisce di sciogliermi dalla condanna di quell’abbraccio. Dentro di me, ben oltre la falsa ed insoddisfacente idea di staticità, so che non smetterò di combattere.
Non sarà oggi, forse neanche domani, o tra due giorni ancora, ma prima o poi smetterò di osservare la mia immagine muoversi al posto mio: io, solo io sarò la protagonista della mia vita.