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Imparare a volare

9. Il destino del solitario

Per finire di revisionare questo racconto sono serviti tre anni. Pare un tempo infinito, ma finalmente ecco il nono capitolo. 

La depressione può assumere molti volti, e per ognuno è un’esperienza diversa. “Il destino del solitario” tra le sue righe nasconde molte realtà, la depressione è una di queste.


Accadde in un gelido pomeriggio di gennaio. Il villaggio abbracciato dal candore della neve riluceva silenziosamente, ma là, dentro al bosco, prevaleva l’incerta oscurità. Il sentiero, quasi cancellato dalle intemperie dell’autunno, era indistinguibile in mezzo agli enormi abeti.
Grigio, asettico: il bosco non poteva che mostrare il suo volto più inospitale.
Accadde in un insignificante giorno di gennaio mentre camminava con passo lento e osservava distrattamente la neve sfuggita alla cattura dei rami più alti, chiedendosi se il freddo che le bruciava le labbra venisse da fuori, o fosse parte di lei. 

Lizbeth era una bambina vivace e curiosa, ben educata e cortese, ma molto schiva. Non le piaceva avere tante persone intorno e trascorreva le giornate in compagnia di sé stessa. Non era solita giocare con i suoi coetanei e rifiutava la compagnia degli adulti come quella degli animali. L’unica cosa che sembrava interessarle davvero era immergersi nella natura ed esplorare i dintorni.
Tutti al villaggio provavano un grande affetto per lei, ma soprattutto tanta tenerezza: era così piccola, e così sola.
I compaesani la osservavano da lontano lasciandole vivere indisturbata le sue piccole, coraggiose avventure, ma sempre con la speranza che arrivasse anche per lei il giorno in cui si sarebbe integrata nella società, per questo cercavano di convincere gli altri bambini a coinvolgerla nei loro giochi, anche se inutilmente.
Ogni anno Lizbeth diventava sempre più audace, seppur frenata da un monito: mai entrare nel bosco da sola: “Il bosco non è un posto per bambine! Solo gli uomini, in gruppo, vi si addentrano per andare in città. È certo una scorciatoia, ma quanto pericolosa – le diceva sua mamma scuotendo la testa per il disappunto – e tu sei così piccola e indifesa, non vorrai farmi morire di crepacuore. Quando non sono a casa devi stare con le tue amichette, come una brava bambina”.
La donna ripeteva incessantemente queste parole, senza rendersi conto che la sola idea di fare qualcosa di proibito era per Lizbeth come l’invito ad un banchetto. E poi di essere una brava bambina non gliene importava proprio niente.
Quando compì dodici anni, la piccola sentì fosse giunto il momento di ignorare quella raccomandazione, e forte del proprio coraggio si avventurò tra i tronchi degli abeti. Ebbra di eccitazione per aver trasgredito, mentre passeggiava fuori e dentro il sentiero, si convinse che non ci fosse niente di sinistro o pericoloso nel bosco: se avesse rispettato la natura, quella avrebbe fatto lo stesso con lei.
Le sue scappatelle andarono avanti in segreto fino all’anno successivo, quando venne scoperta in pieno misfatto. Commise una leggerezza: per inseguire un daino si perse, e rincasò quando era già buio.
Nel tardo pomeriggio i suoi genitori, in preda alla disperazione avevano già allarmato tutto il vicinato. Per quello quando Lizbeth arrivò nella piazza principale si trovò di fronte mezzo paese e non poté accampare scuse.
L’inimmaginabile gioia nel vederla tornare sfumò in pochi istanti, sostituita da nervosismo, e la situazione peggiorò ulteriormente quando la bambina disse: “Mamma il bosco non è pericoloso come credi. Oggi mi sono allontanata troppo, ma non mi perderò più”.
Trascorsero settimane di punizioni inutili: le fu proibito stare da sola, la costrinsero ad andare a giocare con le sue coetanee e ad imparare a ricamare, provarono ad impegnarla nei lavori domestici e le affidarono la cura delle galline. Ma niente la distoglieva dal suo desiderio di esplorazione solitaria, così continuava a sfuggire dal controllo degli adulti, tanto che alla fine smisero di punirla.

Gli anni passarono e Lizbeth diventò una giovane donna indipendente: dopo quella prima volta, si era addentrata tanto spesso nel grigiore della natura che avrebbe giurato di potervi vagare anche ad occhi chiusi, ascoltando i soli suoni del sottobosco ed il suo istinto. I rumori provocati dai cerbiatti mentre fuggivano nelle tane, dagli uccelli in cerca di cibo, dagli insetti svolazzanti e dalle lepri frettolose erano la sua bussola.
Anche adesso che la non-più-piccola aveva vent’anni, non era abile nell’intessere relazioni: interfacciarsi con altri esseri umani le sembrava una perdita di energie preziose. Preferiva girovagare percorrendo strade che non conosceva ma che le venivano suggerite dalle farfalle.
Ormai tutti al villaggio si limitavano a salutarla per la strada e ad inventare storie su dove andasse quando la vedevano sparire per giorni interi. Qualcuno era addirittura certo che fosse una strega e che prima o poi li avrebbe venduti tutti al demonio.

Accadde un gelido pomeriggio di gennaio.

Lizbeth si era avviata nel bosco da poche ore. Doveva andare in città a fare acquisti, ma invece di percorrere il sentiero abitudinario aveva fatto alcune deviazioni: voleva vedere come era mutato il paesaggio dopo le copiose nevicate dell’ultima settimana, per questo avrebbe dovuto raggiungere i crinali.
Il bosco era cupo come sempre, anche se il ghiaccio e la neve creavano degli interessanti giochi di luci. Intorno a lei c’erano specchi di acqua congelata e rami ricoperti di neve, i pochi coraggiosi arbusti ai suoi piedi rilucevano come spade di ghiaccio. Il sole che filtrava tra i rami rendeva l’ambiente più accogliente e la vista piacevole, ma lei notava soltanto il grigiore, come se fosse calata una notte prematura.
La consapevolezza che qualcosa era andato storto arrivò lentamente, quando capì di trovarsi in mezzo ad una natura che non conosceva. Perché non era ancora giunta al grande albero secolare di riferimento?
Inizialmente, invece di allarmarsi si limitò ad ignorare i consigli del buon senso: non poteva essersi persa. Sicura che il cammino rimasto per giungere in città fosse ormai breve, e fiduciosa che avrebbe presto trovato lo svincolo giusto, continuò a camminare.
Fu quando il sole si nascose e la notte minacciò di avvolgerla nel suo freddo abbraccio che mise in dubbio sé stessa.
“Se rispetti la natura, anche lei rispetterà te” disse ad alta voce.
“Io ti ho sempre rispettata, tu mi hai sempre rispettata. Cosa è cambiato oggi? Ti ho forse offesa in qualche modo?”. Guardò avanti a sé: vedeva solo alberi e ancora alberi, intervallati da rocce in schemi che non riconosceva, e poi ghiaccio, neve e gelo. La temperatura stava scendendo vertiginosamente.
Il bosco, il luogo che l’aveva sempre sfidata e stimolata, che le aveva tenuto compagnia e che le aveva mostrato il percorso per diventare adulta, per la prima volta la stava attaccando con armi da cui non poteva difendersi. Era stanca e spossata, e i morsi della fame non le davano tregua. Bastò un istante di distrazione: presa dallo sconforto inciampò sul terreno sconnesso picchiando forte la testa sul suolo. Aiutandosi con le braccia riuscì a scivolare verso un albero e ad accasciarsi contro il tronco, mentre qualcosa di umido le scivolava sopra l’occhio.

Passarono alcuni istanti, o forse intere stagioni.

Fece sogni piacevoli e colorati, l’aria era tiepida intorno a lei. Sedeva sopra dell’erbetta verde, mentre il calore del sole le riscaldava un lato del volto. La neve non c’era più, si era trasformata in acqua ed era andata ad arricchire i torrenti.
Capì di non essere sola. Aprì gli occhi e le vide: “Sono tornate le farfalle” disse sorridendo. Erano così belle nei loro vivi colori blu, rosa, verdi e arancioni. Disegnavano nell’aria delle scie luminose contro cui si rifletteva il bagliore del sole. Si posavano sui fiori e si lasciavano trascinare dal vento. Le rincorse scansando con rapidità i rami pieni di foglie giovani e delicate che le carezzavano il viso e le braccia. Voleva sorridere, ridere. Con la bocca, con gli occhi e con il cuore.
Arrivò fino ad una radura piena di fiori e riscaldata dal tiepido sole primaverile. Quello era il suo luogo preferito, il suo porto sicuro: lo aveva scoperto tanti anni prima e vi trascorreva lunghe ore a scrivere le sue poesie. In quella radura sperduta albergava la sua felicità.
Ma improvvisamente lo scenario cambiò: il sole si spense e gli alberi intorno a lei si seccarono, come se l’umidità fosse stata risucchiata via insieme alla loro vita. Tra i rami mangiati dal freddo si intravedeva un cielo nero privo di stelle. Il freddo pervase la radura, il ghiaccio ricoprì i fiori e le farfalle, fino a farsi spazio nel cuore di Lizbeth stringendolo nel suo pugno.

Si svegliò.

Non era nella radura, ma accovacciata contro un albero freddo come un blocco di ghiaccio. Intorno a lei non era più buio, tra i rami filtrava la luce mattutina.
Era incredibilmente sopravvissuta al gelo della notte. Riprese lentamente il controllo del proprio corpo, gli arti erano come ingessati. Con molta fatica portò una mano in alto per toccarsi il viso e sentì che il sangue sgorgato dalla ferita si era congelato tra i suoi capelli.
Si alzò trovando conforto nell’idea di arrivare alla radura del sogno. Lo percepì come un segno: avrebbe ritrovato l’orientamento, e anche se il corpo le rispondeva a malapena non smetteva di camminare.
Non aveva mai prestato ascolto a chi le diceva che il bosco era pericoloso, forse quella era la giusta punizione per la sua arroganza.
Aveva appena conosciuto il freddo così come glielo avevano sempre descritto: quello che viene da dentro, attanaglia le ossa e i muscoli, fino ad insinuarsi nello spirito, per poi lacerarlo.
Dopo ore di cammino gli occhi iniziarono a trasudare gocce di disperazione, ma l’aria era tanto fredda che le lacrime le si ghiacciavano sul viso.
Cadde di nuovo, e si accorse che sopra di lei era visibile il cielo: aveva raggiunto la radura. Un piccolo moto di vita dentro di lei le ricordò che avrebbe dovuto esserne felice, da quel luogo sapeva come tornare a casa.
“Solo qualche minuto – si disse – devo riposare un attimo gli occhi”. Stava sfidando la sorte, ne era consapevole, ma era così stanca. Si girò supina sul terreno freddo per osservare il sole nascondersi dietro alle nuvole grigie.
“Il destino che aspetta le persone solitarie non è mai benevolo, ricordatelo Lizbeth” una volta sua madre le aveva detto così per spaventarla, ma neanche in quel momento rimpianse la solitudine.
Chiuse gli occhi. Quando li riaprì qualcosa di freddo le annebbiò la vista. Neve. Provò a portare una mano verso il volto per pulirli, ma non ci riuscì: non poté ammirare lo spettacolo dei cristalli di ghiaccio che lentamente ricoprivano gli alberi, il terreno, e il suo corpo abbandonato in quella radura.


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8. Linee Sottili

introduzione

Ho messo mano a questo racconto dopo tre anni dalla sua stesura. Sono stata tentata di renderlo attuale modificando la sintassi in modo da avvicinarlo a come scrivo ora. In parte l’ho fatto, ma non del tutto: ho deciso di trattenermi perché sconvolgendo la forma avrei rischiato di sconvolgere indirettamente anche il contenuto.
Questo racconto è diretto, disperato, stanco: così voglio che rimanga. 
“Linee Sottili” nasce nel 2017, è stato scritto in ordine cronologico dopo “Tempo Tiranno” e lì è rimasto all’interno della raccolta. 

Chiunque tu sia, se adesso ti trovi nello stesso posto dove Alice si trovava in quei giorni, non sei solo.


C’è una linea incredibilmente sottile tra l’essere solitari e l’essere soli, così come c’è una linea incredibilmente sottile tra il sentirsi soli e il credersi solitari.
Le linee sottili che si incontrano nel corso della vita sono tante e variopinte. Esiste forse una distinzione netta tra il bene e il male? O tra la gioia e il dolore? Tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato? Tra resilienza e sopportazione?
No, una differenza spiccata non esiste.

Ma tu ed io, chi siamo?

Esseri umani, custodi di tesi e antitesi immersi in una furiosa ricerca della nostra identità.
Nel barcamenarci tra le luci e le ombre della vita, dimentichiamo.
Dimentichiamo le linee sottili, dimentichiamo la nostra natura dinamica, sempre in movimento, a favore del desiderio di essere statici. Come piante.

Insoddisfatti.
Non è ovvio?

Abbracciamo l’insoddisfazione di cui ci lamentiamo.
Mutiamo le nostre opinioni solo per scoprirci scocciati dal cambiamento; ricerchiamo l’abitudine ed osserviamo il mondo come se fosse intriso di immobilità, questa è l’unica grande certezza.
Persone, luoghi, attimi, sospiri, conversazioni: di essi creiamo figure, dipinti e fotografie, così da catturare l’eterno in un infinitesimo.
Ci pensiamo vittoriosi quando cadiamo nell’illusione di controllare una realtà dinamica.

Non risulta ovvio, adesso, il motivo dell’insoddisfazione?

Con arroganza ci riteniamo capaci dell’impossibile.
Quale pretesa quella di conoscere – capire – ogni smorfia che passa sul volto di chi abbiamo di fronte, quando è in realtà solo una prima superficiale impressione.
E lasciatemelo pensare: quel primo sguardo non basta certo a capire cosa celino gli occhi nella loro profondità.
Ma ho perso il mio concetto di apertura: le linee sottili.
Da ragazza sognavo una vita idilliaca: ognuno supereroe di sé stesso, non immune alle difficoltà, ma sempre capace di portarsi a galla autonomamente. L’essere una persona solitaria, in questa utopica visione, è la condizione ideale per salvarsi da soli, con le proprie forze, di fronte a qualsiasi pericolo. Scontato il fatto che trovassi un fascino unico nell’essere una persona solitaria.
Con gli anni ho conosciuto il rovescio della medaglia.
Solitudine è invisibilità,
poter essere rapidamente dimenticati,

quasi volerlo.

L’ho desiderato per anni.
Il potere di diventare invisibile.
Tutti i supereroi hanno dei poteri, e pur di non affrontare la vita, cosa poteva esistere di più semplice di svanire?
Ma oggi, nel presente, mentre sono in riva al lago?
Forse è per questo che sono davvero sparita. O forse mi sento sparita.

Ho trovato un’altra linea sottile.

Osservo questa primavera ordinaria, soleggiata, un po’ banale. Anche se rimane uno dei miei periodi preferiti semplicemente perché le persone sembrano pervase solo da buon umore, in primavera.
Mi sento meno sola, in primavera.
È come se i primi, freschi colori della natura carezzassero il viso delle persone con gentilezza, predisponendole a fare altrettanto.
A scanso di equivoci: io amo l’inverno; non riesco tuttavia a scacciare la sensazione che, con il freddo nelle ossa, molti colleghi esseri umani siano più scortesi.
La primavera porta la predisposizione al sorriso.
Sto perdendo di nuovo la bussola.
Domenica sette aprile, la primavera soleggiata un po’ banale, ed un lago verde-azzurro che gioca con le montagne ed il riflesso degli alberi. Di tanto in tanto passa anche una nuvoletta candida ad ombreggiare le persone che sono distese sulla riva ed i bambini che schiamazzano allegri.
Sono qui perché mi sono imposta un atto di coraggio: ho improvvisato un’ambientazione inconsueta per questa giornata, accettando l’invito di un gruppo di amiche. Non sono solita immergermi nella natura, soprattutto se meta di pellegrinaggio di troppe persone. Gli unici luoghi affollati che apprezzo sono quelli dove è facile risultare anonimi, come le metropoli.
Questa mattina tuttavia, quando Vittoria mi ha telefonato con genuino entusiasmo cercando di coinvolgermi, spinta da senso di dovere interiore più che da una reale voglia di stare in compagnia, ho accettato di partecipare.
O forse non è dovere, volevo farlo…

davvero?

Si, questa sarebbe la risposta, se fossi sempre io.
È così che appare la solita linea sottile tra essere solitari ed essere soli.
Non ho mai capito come sono passata da una cosa all’altra. Sarebbe meglio dire che non so come sia arrivata a sentirmi accompagnata dalla solitudine, quella vera, quella a cui non interessa quanti siano gli occhi che brillano intorno a te – e a lei – perché non accetta terzi incomodi, a lei appartengo in un modo che, non posso far a meno di pensare, sia irreversibile. 
Ho immagini sbiadite nella memoria per quanto riguarda gli anni passati, ricordo solo una cosa chiaramente: ero molto diversa. Mi gettavo letteralmente al centro dell’attenzione, mi piaceva essere protagonista, e più di ogni altra cosa ero felice di non essere invisibile. All’epoca mi raccontavo di essere una ragazza riservata, a cui piaceva stare in disparte ed essere poco visibile, ma allo stesso tempo sapevo che non era la verità.
Anche se a volte mi sentivo a disagio – un’altra linea sottile? –.
Ero timida, ma sfrontatamente spavalda.
Spesso mi domando cosa pensino di me le anime che mi circondano.
O forse mi chiedo tanto intensamente cosa abbia fatto a me stessa, da immaginare che anche gli altri facciano altrettanto.
Osservandomi riflessa nei loro occhi vedo una cosa sola: ho perso interesse, sono diventata egoista, scorbutica, solitaria.
Non provo più affetto.

Che cos’è l’affetto?

Ho amicizie che durano da un’intera vita. Le ragazze là sul lago, a pochi metri da me, mi conoscono da quando eravamo bambine. Si sentiranno offese dai miei nuovi comportamenti?  Credo di sì.
La mia realtà si manifesta di fronte a loro in tutta la sua illusoria staticità, lasciando come fotografia solo ciò che possono intuire dal mio silenzio.
I loro occhi non mentono, e le sensazioni sotto la mia pelle neanche: con tutta l’umiltà del mondo  non voglio sprecare il loro – e il mio – tempo nel provare a spiegare che in un qualche modo molto articolato gli voglio bene, anche se non sono più capace di sentire, perché non è quello il problema.
La colpa è solo della solitudine.
In tutta sincerità non capisco perché continuino a provarci con me, non si danno per vinte: non si sono arrese al disinteresse, alla mia palese inutilità quando deve essere portata avanti una discussione.
Continuano ad invitarmi anche se non accetto mai.
Mai, tranne oggi, perché oggi sono qui, sono in riva al lago.

Esisto?  

In questo momento sono in disparte: mi sono allontanata con l’intramontabile scusa di fare una telefonata. In realtà ho solo bisogno del conforto dell’isolamento. Una pausa dallo sforzo di ascoltare la conversazione. Anche se la telefonata immaginaria è terminata da alcuni minuti sono rimasta a lanciare sassolini nel lago. Butto rapide occhiate verso le ragazze, la vita scorre tranquilla: c’è chi sonnecchia, chi gioca a carte, chi ride su qualche battuta.
E così accade: vedo me stessa dall’esterno.
Mi alzo in piedi e raggiungo il gruppo lentamente. Francesca alza lo sguardo verso di me per chiedermi se ricordo quando da bambine i nostri genitori ci portarono in questo stesso posto. L’immagine di giorni passati scalda lievemente qualcosa dentro di me.
Passano pochi minuti e rido, rido tantissimo, con la testa tirata indietro e la bocca aperta, perché Francesca sta raccontando di quella vecchia caduta dentro l’acqua: piedi bagnati ed un’intera giornata con le scarpe zuppe, senza dirlo ai genitori.  
Perché non mi lascio alle spalle i tormenti che mi impediscono di mettere entrambe le orecchie a disposizione dei miei interlocutori? Sembra semplice.
Mi osservo ancora dall’esterno: vedo me stessa iniziare una conversazione vera, non ho paura di parlare, le mie parole hanno valore, non sono vuote –  non le sento vuote –.
È così che scorre una leggera giornata di primavera sulla riva di un lago per chi non ha paura di vivere.
Potrei ricominciare da qui,
punto e a capo: senza paura di sbagliare, senza giustificare quello a cui la solitudine mi ha condannato, senza chiedermi cosa pensino le mie amiche del mio cambiamento.
Per questo oggi ho accettato l’invito: per ricominciare.
Ma il vero slancio di coraggio, quello che mi farebbe davvero alzare in piedi e non immaginarmi di farlo, mi manca.
Una linea sottile.
Smetto di osservare le mie fantasie.
Sono sempre sola in riva al lago a lanciare sassolini.
Mi chiedo ancora, per una centesima volta, come diavolo abbia fatto a lasciarmi lusingare in questo modo dalla solitudine e perché, semplicemente, non cambio atteggiamento.

Perché non posso.

Ci provo, ci ho provato oggi venendo al lago, ho rotto uno schema, ma non sento niente.
Ripenso a stamani mattina. Prima di partire mi sono chiesta se fossi felice della scelta di uscire, o se quella rottura mi avrebbe solo – profondamente – turbata.
Vorrei scomparire, rompere quella linea sottile, cedere, cadere.
Potrei fare come i codardi, quelli che si arrendono.

Ma…
Non sono a casa nel mio letto, sono al lago.

Qualcosa più forte del pensiero e del tormento, più forte dell’abbraccio della solitudine, mi tiene accesa, flebile, in piedi dall’altro lato della linea.
Con la delicatezza e la tranquillità di una piuma che cade, mi suggerisce di sciogliermi dalla condanna di quell’abbraccio.  Dentro di me, ben oltre la falsa ed insoddisfacente idea di staticità, so che non smetterò di combattere.
Non sarà oggi, forse neanche domani, o tra due giorni ancora, ma prima o poi smetterò di osservare la mia immagine muoversi al posto mio: io, solo io sarò la protagonista della mia vita. 

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7. Tempo Tiranno

INTRODUZIONE

Questo racconto del 2016, apparentemente semplice e non troppo articolato, è stato difficile da scrivere: sia come tempistiche, che per quanto riguarda la sintassi. Sono stata ispirata in momenti diversi, ben distinti, che ricordo come fosse ieri. 
La sua collocazione a metà raccolta è ben studiata, ma sta a voi capire cosa trarre emotivamente da questa mia scelta. 
Una curiosità: “Tempo Tiranno”, inizialmente, a coronare la mia difficoltà nel trovare titoli giusti, prendeva il nome “La Landa Desolata”. 
Buona lettura.


La landa desolata era spruzzata di neve per buona parte dell’anno. All’alba di novembre, i rovesci iniziavano a trasformarsi in nevischio, e il manto bianco abbandonava l’ambiente solo ad inizio maggio. In estate – sempre se essa potesse esser definita tale, visto le glaciali temperature di luglio –, i timidi arbusti della pianura erano coccolati da fili d’erba verdi e gialli, e il paesaggio acquisiva così leggere sfumature di colore.
Anche nella bella stagione, però, un occhio attento avrebbe visto ben poco oltre ad un denso bianco sporco: la fitta nebbia, che ingrigiva l’orizzonte quasi ogni giorno, aveva il vizio di scivolare fino a soffocare qualsiasi slancio di vita vegetale.
Solo nei rari giorni di chiaro, accarezzando con mano i fili d’erba e toccando con gli occhi l’orizzonte, si potevano scorgere le dolci vette delle catene montuose: pendii erosi dal vento e dal tempo che, per quanto poco piaccia all’essere umano, scorre in modo inesorabile, portando ogni giorno via con sé piccole parti di ogni cosa.
In quello scenario di desolazione, sul tetto di un colle ad ovest dei rilievi maggiori, vi era un unico segno di presenza umana: un’abitazione maestosa, forse nata sul rudere di una torre di osservazione medievale. Vi abitava un vecchio signore con le sue adorate sette capre e tre domestici: maggiordomo-stalliere, la di lui moglie, e la di lui sorella, affetta da mutismo.  
Lassù la vita scorreva lenta, in modo ripetitivo, con i sospiri ed i pensieri di quelle persone che si a amalgamavano al silenzioso squallore dell’ambiente circostante.
Il dì era sì fatto: ogni mattina il maggiordomo si recava nella stalla alle prime luci dell’alba, accudiva le capre e mungeva il latte fresco, da cui poi la moglie ricavava un buon formaggio.
Al canto del gallo, la sorella muta si presentava nella camera del padrone di casa aprendo le pesanti tende marroni, e lo svegliava servendogli la colazione. Costui, dopo essersi rifocillato, spalancava la finestre della camera da letto ed osservava l’orizzonte. Lì rimaneva come in sacra contemplazione, immune al gelo che penetrava nella stanza. Lo sguardo del signor Cadringher indugiava per lo più ad est, dove la collina su cui si ergeva l’abitazione scendeva dolcemente tuffandosi in un mare di alberi tanto fitti e scuri, che al tramonto potevano essere scambiati per un mare di petrolio.
Dal quel bosco negli ultimi vent’anni non era mai apparsa anima viva: anche gli esploratori più coraggiosi erano intimoriti dall’inospitalità del luogo, mentre i pochi che si avventuravano nella pianura erbosa preferivano passare da ovest, dove una singola, timida strada collegava la landa al resto della civiltà.
Nel pomeriggio, il silenzioso padrone di casa cambiava punto di osservazione: il salottino della libreria era il luogo designato. Si accomodava sulla polverosa poltrona al di sotto della più grande delle finestre, e sprofondando nel tessuto, tra una pagina ed un sospiro, sbirciava verso l’orizzonte, anche nei giorni in cui questo era fatto da sola nebbia.
Le visite all’antica abitazione del signor Cadringher non solo erano infrequenti, ma addirittura praticamente inesistenti.
Il fedele maggiordomo, in sella al vecchio stallone, era l’unico individuo che si muoveva tra quella collina dimenticata da Dio e il resto del mondo, e lo faceva più per dovere che per piacere: qualsiasi contadino, panettiere o commerciante in genere, rifiutava di consegnare in quel luogo.
Più e più volte il padrone di casa si era domandato come mai quello stolto del servo – famiglia annessa – non lo avesse ancora abbandonato a sé stesso, ma non aveva mai espresso a voce alta il suo pensiero. Doveroso aggiungere che, se non fosse stato troppo preso dall’osservare il susseguirsi delle stagioni e l’erodersi delle montagne, avrebbe anche potuto essere grato per quelle silenziose presenze che gli assicuravano il formaggio fresco ogni mattina.
Donát – questo era il nome del vecchio – viveva in isolamento da quando ne aveva memoria, e quest’ultima iniziava da un preciso momento: quando i suoi ultimi affetti erano stati consumati dallo stesso vento che erodeva le montagne.
Alcuni familiari erano stati portati via anzitempo dalla meschinità del Fato, mentre altri si erano semplicemente stancati di quell’uomo taciturno, schivo e introverso, abbandonandolo a sé stesso.
Donát aveva vissuto una vita lunga: dapprima, brevemente, aveva valutato il confusionario mondo esterno, per poi rinchiudersi nel confortevole caos della solitudine, che lo aveva temprato e accompagnato non verso l’autocommiserazione, ma all’accettazione.
La stanchezza di vivere era giunta quando egli era ancora molto giovane, ma di quel momento non ricordava molto.
Talvolta, in inverno, quando le giornate erano tanto brevi da sembrare notti chiare, e la neve cadeva così fitta da far pensare che il bianco fosse il Tutto, qualche ombra gli attraversava gli occhi. Il mondo non esisteva più, e lui sentiva le feroci pugnalate inferte dalla perdita di fiducia, il pizzicare di ferite che solo il tradimento di una persona amata può inferire.

Ma non permanevano.

Rapidamente, silenziosamente, i dolori si mescolavano con la neve, e il vento spingeva le sue piogge interiori verso le montagne, e le trasformava in quelle tempeste bianche che nascondevano l’orizzonte.
Quella desolazione e l’esistenza trascorsa nascosto nel nulla avrebbero accompagnato Donát fino al momento in cui l’ultimo respiro gli si fosse incastrato in gola, soffocandolo.
Tale consapevolezza non lo aveva mai preoccupato, almeno fino al giorno in cui un ragazzetto sgangherato, smilzo e con i vestiti stracciati, giunse alla sua abitazione.
L’incontro avvenne casualmente, durante l’abituale passeggiata di Donát nel roseto.
Il vecchio non diede molta udienza al giovane, ma lui parlava: c’era, da qualche parte, un mondo diverso da quello in cui l’uomo viveva, un mondo in cui il rosso delle rose non ricordava solo il colore del sangue.
Il giovane parlava dei colori brillanti della natura, dei campi di papaveri rossi e delle coccinelle, dei fiumi tranquilli circondati dal verde scintillante delle piante illuminate dal sole. Parlava dei pavoni maestosi e imponenti, della libertà delle aquile, di pendii bagnati di lava che si gettavano coraggiosi nell’oceano, specchiandosi in un blu più profondo della notte. Raccontava di uomini che mangiavano fuoco, e di cavalcate in enormi praterie. Parlava di laghi immobili come specchi, del mondo dei curiosi, degli avventurieri, degli scienziati. Il mondo di chi sdegnava la codardia e ammaestrava la propria esistenza con coraggio, come se fosse uno spettabile direttore d’orchestra di fronte agli strumentisti.
Parlava di un mondo diverso da quello dell’accettazione, nonostante la paura. Un mondo vissuto da chi non ha perso la speranza, anche se non crede più in niente.
Il ragazzo era l’incarnazione dell’entusiasmo, dalla sua bocca sgorgavano parole di disarmante semplicità, arricchite da occhi che avevano vissuto poco, ma allo stesso tempo conoscevano più cose di quante Donát avesse mai visto in una lunga vita solitaria.
Quel giorno qualcosa cambiò nel cuore di Donát. Una sensazione dimenticata lo accerchiò: ebbe paura di sé stesso, di non aver mai veramente vissuto.

Ma nonostante ciò non si mosse. Non subito.

Continuò ad attendere per giorni, mesi, che poi si trasformarono in anni. Aspettava che il coraggio di cambiare lo facesse correre per la prima volta nella vita.
Fu una mattina, quando svegliandosi vide per la prima volta un’aquila sorvolare la valle innevata, che finalmente decise: sarebbe partito non appena l’inverno fosse finito. Avrebbe cercato i colori della vita – l’unica che aveva a disposizione – e il vento della speranza, così da accogliere la possibilità di un nuovo inizio, un altro ancora.
Ma il tempo fu tiranno, non lo perdonò.
Donát, colpito da una forte polmonite, e indebolito dall’età, nonostante le cure del maggiordomo, non superò l’inverno. Lasciò la landa desolata e la vita in perfetta sintonia con il modo in cui aveva sempre vissuto: da solo ed in silenzio.

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6. Wanderlust

INTRODUZIONE

Vi presento il sesto capitolo della raccolta “Imparare a volare”. Il caso vuole che io non ricordi bene come sia nato questo racconto, ricordo però quando: era il 2016, l’anno in cui il mio viaggio è veramente iniziato. Tenete con voi questo racconto, leggetelo con la consapevolezza che la sua posizione a metà raccolta ha un ben preciso significato: da adesso in poi la narrazione diventerà cupa, e, prossimamente, vedranno la luce racconti intrisi di malinconia, melanconia e dolore. 

Per questo racconto ho chiesto alla mia cara amica @giulia_trio_art (studente di pittura ad olio) di creare un’illustrazione ad hoc. Dopo una fase iniziale in cui le ho suggerito le mie idee, abbiamo concluso che la vera espressione artistica richiede spontaneità: Giulia ha creato un disegno sulla base di ciò che il racconto le ha evocato.  


La chiamano wanderlust: la “sindrome” di chi non può stare senza viaggiare. Le persone vacanziere, in modo semplicistico, usano questo termine per descrivere la propria passione nel trascorrere le ferie lontano da casa.
Funziona così la nostra società: ad ogni concetto si attribuisce un nome, un’etichetta; si ricerca un filo conduttore che colleghi tra loro un gruppo di persone, al fine di creare una categoria, che finisce, immancabilmente, per essere main stream.
Mi chiamo Abigail, e non apprezzo questa definizione semplicistica. Non mi ritengo una persona polemica, sono solo molto affezionata a qualsiasi cosa sia in grado di toccare tasti profondi dentro la mia anima, e per me, wanderlust è stato un percorso di vita. 
Questa parola è ormai diventata un brand: la si legge a scopi pubblicitari nelle vetrine delle agenzie di viaggio, la si scorge nelle riviste e nel mondo dei social. Il concetto è stato ridimensionato, fino a rendere ordinario l’eccezionale, e sottrarre un poco di quell’intimità che chi viaggia alla scoperta di desideri ignoti prova quando programma l’atterraggio successivo.

Parecchi anni fa, ero una bambina molto curiosa. Ricordo ancora molto bene di aver scorto quella parola per la prima volta quando avevo appena imparato a leggere: «Mamma, cosa significa wa… wandre… wander… lust?».
Mia madre ed io eravamo sedute nella sala d’aspetto dello studio dentistico, e, in attesa della visita, avevamo casualmente iniziato a sfogliare una rivista. Mentre mamma girava rapidamente le pagine, ero stata attratta da quelle poche sillabe riportate in una pagina colorata, piena di persone sorridenti con in mano valige e borsoni.
«Credo di aver letto questa parola navigando su internet», mi aveva detto, «se non sbaglio, con wanderlust si indica la malattia del viaggiatore», e intanto continuava a sfogliare il giornale distrattamente.
«Oh. Fa male alla salute viaggiare?» avevo chiesto con gli occhi pieni di curiosità.
In risposta mamma aveva iniziato a ridere particolarmente divertita, e posando il giornaletto aveva aggiunto: «Certo che no, bambina mia, è un modo di dire: le persone a cui piace tanto tanto viaggiare lo farebbero sempre. Non appena rincasano da una vacanza, prenotano subito la successiva: si comportano come se fossero dipendenti dal girovagare per il mondo. Per questo, qualcuno ha inventato la parola wanderlust. A me più che altro pare un modo per prendere in giro le persone che sprecano i loro stipendi con queste assurdità».
Nonostante la spiegazione, non avevo capito assolutamente cosa significasse wanderlust. Nella mia testa, infatti, si era generato un curioso gioco di pensieri. La parola “malattia” era stata la causa scatenante: avevo immaginato passeggeri con fratture, con la testa fasciata, il raffreddore o la febbre alta. Non avevo fatto in tempo ad approfondire, perché la dentista aveva aperto la porta dello studio, invitandoci ad entrare, ed una volta finita la visita, la piccola me stessa aveva dimenticato la breve conversazione.
Ciononostante la parola wanderlust, da quel giorno, rimase impressa inconsciamente nei meandri della mia mente. Per un buon motivo, avrebbe commentato il fato, dato che non appena ne ebbi l’occasione, presi il primo aereo in solitudine.

Ricordo bene anche quell’evento.
Era una mattina fresca e soleggiata: l’alba di un’estate che preannunciava di essere torrida. Non ero ancora maggiorenne, e i miei genitori mi avevano accompagnata in aeroporto, da dove stavo per volare fino alla bella Siviglia, nella sconosciuta Spagna.
«Abigail, tesoro, hai fatto programmi per questa settimana di vacanza?» aveva esordito mia madre in auto, risvegliandomi da un nebuloso torpore.
«Nessun programma al momento, ma lo faremo. Maria vive a Siviglia da mesi, conosce il posto», avevo detto distrattamente.
«Vai all’estero senza programmare alcunché? Non sai neanche la lingua, speriamo tu non ti perda all’aeroporto!» a mio padre era sempre piaciuto schernirmi – in modo affettuoso –. Io non avevo dato peso a quelle parole: non riuscivo a guardare oltre il semplice gesto di poter, per la prima volta, volare via.
Più tardi, mentre l’aereo stava per alzarsi verso il cielo, avevo capito: la mia prima vacanza senza famiglia, non era altro che l’inizio del mio wanderlust.

Da quel momento ogni giorno vissuto e ogni anno trascorso, hanno incrementato il mio irrefrenabile desiderio di esplorare, di andare oltre al mondo conosciuto e affrontare sfide impreviste, di scovare posti nuovi, culture, cibi.
Ogni volta che si è presentata l’occasione, ho assecondato il mio bisogno: ho scoperto città costiere e città montane, metropoli e piccoli borghi storici, luoghi moderni e affollati intrisi delle memorie della storia e di chi, prima di me, ha camminato su quelle strade.
Con il tempo ho creato le due versioni di Abigal che esistono oggi: ci sono cose che dico ed altre che mi limito a pensare.
Ciò che dico di amare di più del viaggio, è la possibilità di osservare ogni cosa ed ogni persona, così da sentirmi proiettata alla ricerca di nuove prospettive, nuovi orizzonti: grazie a stimoli diversi da quelli ordinari e possibilità sconosciute, accolgo realtà parallele che non avevo mai considerato prima, semplicemente perché non sapevo della loro esistenza.
Ciò che non dico, è quanto di più profondo io percepisca, perché evoca le emozioni che alloggiano rannicchiate, quasi nascoste, all’ombra delle mie parole: viaggiare per fuggire.
La mia vita, come quella di chiunque altro, è stata costellata da momenti diversi: positivi o negativi, apprezzabili, difficili o stressanti. La immagino schematizzata su un grafico cartesiano: una curva fatta di alti e bassi, picchi e valli. Quando la mia personale curva si avvicina ad un minimo, prenoto un aereo.
Bastano solo pochi giorni in un posto nuovo: agiscono da cura, medicina per la mia insoddisfazione, per la tristezza e la malinconia. Alla costante ricerca dell’eccezionalità che da adolescente invidiavo alle eroine dei romanzi fantasy, non voglio arrendermi ad una vita scandita da ritmi scontati, bensì vivere l’avventura nell’ordinaria eccezione alla routine.
Quando rincaso dopo un viaggio, provo la stessa sensazione che nella mia immaginazione dovrebbe percepire un’automobile dopo il pieno.
O almeno così è stato, fino a pochissimo tempo fa.
All’improvviso, senza avvertimenti, insieme ai doveri e alle responsabilità, sono arrivate consapevolezze nuove: mi sono resa conto che le piccole fughe degli anni passati mi hanno riempita, ma soprattutto illusa. Ho scoperto che fuggire ricarica le mie difese soltanto se, prima della partenza, sono già consapevole di quali siano i miei piccoli nemici. La fuga diventa invece inutile, se a tormentarmi sono i demoni dell’anima che non riesco ad individuare.
Ho colto così una piccola ombra in wanderlust, qualcosa che non riesco a capire fino in fondo, una domanda che nella mia testa risuona sempre più insistentemente: «Dove fuggi, quando ciò da cui fuggi sei te stesso?»
Eccomi: per la prima volta, temo di non poter affrontare un minimo della vita con un viaggio. Ho sempre tenuto le redini della mia esistenza saldamente tra le dita, senza cedimenti o debolezze, per questo adesso ho paura: in me è nato lo sconforto, ho perso la lucidità. Eppure al contempo, ho trovato un nuovo coraggio: quello del cambiamento.
Non posso comportarmi come di consueto, non posso volare via: devo provare a navigare, fare rotta verso gli angoli più reconditi del mare che alberga dentro di me.
Quell’azzurro che ho sempre finto di non conoscere, dicendo a chiunque «A me non piace il mare».
In fondo lo so: se ciò che cerco non sono riuscita a trovarlo in quanto vissuto fino ad ora, non mi resta altra scelta se non intraprendere una rotta che non ho mai intrapreso prima.

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5. Il roseto

introduzione

Non voglio spendere troppe parole per introdurre questo quinto capitolo, darò solo qualche informazione: il racconto, scritto nel 2017, è inspirato ad una storia vera, molto più vecchia di me. Secondariamente è l’ultimo racconto della raccolta che tratta il tema di una relazione amorosa, ed anche l’ultimo racconto in cui i colori caldi e luminosi regnano sovrani.

Due doverosi ringraziamenti: a Francesca Cappucci, giovane professoressa ed accanita lettrice, per aver revisionato lo scritto. A makielisewin, per aver scattato e poi condiviso con me la foto che fa da copertina a questo racconto!

Racconto

Nella campagna Toscana, nel paese dove molti anni or sono fu costruita casa Riglietti, la primavera è solita iniziare sotto l’abbraccio di un tiepido sole, pronto per cullare la rinascita della natura. Ogni anno le farfalle e le api ronzano tra i peschi rosa ed i susini bianchi disseminati tutto intorno al roseto, soffermandosi di tanto in tanto a baciare un fiore. Non lontano, giusto qualche metro più in alto, svolazzano gli uccellini che ignorando il muro di cinta, planano sul salice piangente che cresce rigoglioso al centro del roseto.
Il cancello principale della proprietà appare come la cornice di un quadro perfetto: un osservatore esterno ficcando il naso oltre le sbarre, si troverebbe di fronte ad un ordinato vialetto ghiaiato adornato da statue bianche; non meno di 25 metri più avanti questo si biforca conducendo sulla sinistra alla grande ma delicata abitazione, e sulla destra, al giardino di rose perfettamente curato.
Il roseto è una vera attrazione per i compaesani, che da sempre lo ammirano per i suoi scintillanti colori: impeccabilmente rosso e verde. Nessuna rosa, infatti, ha mai avuto il permesso di crescere se di un colore diverso: così fu deciso parecchi anni fa dal Signor Riglietti, che in accordo con i giardinieri fece piantare solo rose rosse, come regalo segreto alla moglie, che le amava.
Molti anni sono sfumati da quei giorni, e Leonor Riglietti è rimasta l’unica maniacale curatrice di quei fiori. Con l’età della pensione e molto più tempo libero a disposizione, dedica tutta sé stessa a quelle rose, come se tali premure fossero rivolte anche a chi, molti anni prima, le aveva fatto dono di esse e che la vecchiaia le aveva portato via.

*

La mattina del sedici aprile gli uccellini cominciarono a cantare senza sosta sin dalle prime luci dell’alba. Si apprestavano ad accogliere il nuovo giorno svolazzando tra un ramo ed un altro, accompagnando aprile con i loro spettacoli musicali ed i volteggi coraggiosi, eseguivano impeccabilmente il compito di allietare il dì senza curarsi di tutto il resto, finendo così per svegliare Leonor Riglietti ancor prima del solito. 
Dopo aver aperto la finestra del secondo piano e spalancato le persiane, Leonor si soffermò ad osservare gli instancabili cantanti piumati e l’aria pungente del mattino le rinfrescò il viso svegliandola definitivamente.
La vita di Leonor era stata piena, lei stessa avrebbe potuto definirla una vita molto felice. Donna gentile e di innata bontà, da sempre trovava il perché nelle piccole cose e il senso della vita nell’intimità di una famiglia unita, e  nella spontanea generosità con cui donava sé stessa al prossimo.
Consumata la colazione, si avvolse nel morbido scialle di lana e, forbici da giardinaggio alla mano, si avviò verso le rose con l’obiettivo di riuscire a concludere la pota prima di sera. Mentre lavorava con pazienza e dedizione, la sua mente scelse un ricordo da farle rivivere, complice la data: era un lunedì sedici, così come quel terribile giorno di agosto di tanti anni prima era il numero sedici.

Erano gli anni ’50: all’epoca viveva con i genitori, tre fratelli e la sorella maggiore. In quegli anni le famiglie medie non conoscevano lo sfarzo, o anche la semplice condizione di benessere tipica del primo ventennio del duemila; tuttavia la famiglia di Leonor era serena e piena di aspettativa, visto ogni piccola novità portata da una nazione in forte ripresa dopo la guerra.
Tecnologia all’avanguardia, internet e videogiochi non vivevano neanche nelle fantasie dei bambini. Ma a cosa servivano? A quei tempi bastava un cioccolatino per essere felici!

«Mamma! mammaaa» il flusso di pensieri di Leonor fu interrotto da una familiare voce femminile in lontananza: era sua figlia.
«Sono nel roseto» rispose alzando il volume della voce.
Non più di un paio di minuti dopo, una bella donna sulla quarantina che le somigliava molto le diede il buongiorno con un abbraccio.
«Intorno alle rose già di prima mattina?» le chiese.
«Oh sì, mi sono alzata molto presto. In questa stagione hanno bisogno di cure meticolose, sai?»
«Ancora non capisco perché non lasci che il giardiniere ti aiuti, almeno una volta a settimana!» 
«Non sono mica così vecchia. Lui ha tutti gli alberi da frutto da curare, con le rose posso cavarmela da sola» e, detto questo, tornò a portare l’attenzione sui rametti secchi.
«Questo giardino è enorme, mamma – disse la figlia con tono di resa, ben consapevole che non sarebbe servito a niente insistere – hai un altro paio di forbici da pota? Vorrei aiutarti. Almeno io posso?»
Leonor sorrise, e come se si fosse aspettata quella domanda, estrasse dalla tasca del suo ampio grembiule l’utensile.  
Madre e figlia trascorsero qualche minuto parlando dell’andamento scolastico dei nipoti e del pranzo di Pasqua imminente, ma in poco tempo la mente di Leonor tornò al ricordo di quel sedici agosto. Non potendolo più tacere si rivolse alla figlia, chiedendole se per caso avesse mai udito il racconto di quel giorno.
Ambra si soffermò a pensare per qualche istante, poi delusa disse: «No, non che io ricordi, mamma».
«Vieni – disse mettendo in tasca le forbici – prendiamoci una pausa» e si incamminò verso la panchina ombreggiata dal salice piangente. Una volta comoda, con lo sguardo verso l’orizzonte, Leonor iniziò a raccontare.
«Era proprio una bella giornata di sole, come questa. All’epoca frequentavo un ragazzo da qualche tempo. Bada bene: non frequentavo – sottolineò la parola – come fanno quei giovani di ora senza ritegno – scosse una mano e strizzò gli occhi come a scacciare il pensiero – andammo al cinema qualche volta, rigorosamente accompagnati da mia sorella, tua zia.
Lui si spostava molto in bicicletta, e innumerevoli volte si fermò davanti alla mia abitazione per parlare con i miei fratelli. Era una scusa bella e buona: sono sempre stata consapevole che aspettava semplicemente che io tornassi da lavoro.
Era proprio un bel giovanotto, sai? Biondo come un angelo e con gli occhi azzurri, quasi grigi. Ricordo molto bene anche il suo giovane sorriso: era ammaliante.
La nostra frequentazione – scandì ancora la parola – non fu una cosa semplice: lui era claudicante e a quei tempi un piccolo paesino come il mio non brillava certo di mentalità aperta.
La sua condizione fu causata da un incidente domestico accaduto quando aveva solo pochi mesi: le ossa della sua gamba si rovinarono completamente. I suoi genitori raggiunsero l’ospedale con troppe ore di ritardo, ed i medici non riuscirono a curarlo. Ci pensi? Al giorno d’oggi probabilmente avrebbero risolto tutto senza complicazioni, grazie agli innumerevoli mezzi di trasporto e alla vicinanza delle strutture ospedaliere».
Si soffermò un attimo sospirando. La figlia la osservò senza azzardare commenti, fino a che non riprese a raccontare.
«Le persone non si curavano di celare commenti di sdegno. Più volte ho udito bisbigliare cattiverie alle mie e alle sue spalle. Dicevano che se ci fossimo sposati i nostri figli sarebbero stati storpi, come lui. Non capirò mai come si possa essere così crudeli. Se avessi potuto scegliere, non avrei voluto udire quelle parole, e soprattutto non avrei voluto che lui sentisse.
La mia istruzione era misera e figuriamoci se conoscevo la medicina, ma nel profondo sapevo che lui era perfettamente normale. Quelli non erano altro che pregiudizi inaccettabili, ma a quanto pare giudicare una persona solo dal suo aspetto esteriore era un’abitudine radicata».
«Ma io quell’uomo l’ho conosciuto?» la interruppe Ambra con un velo di consapevolezza.
«Fammi finire prima di commentare. Dunque, stavo dicendo… ah, sì il  sedici agosto, io e questo giovane uomo avevamo un altro appuntamento al cinema. Fu Una giornata davvero piacevole, almeno fino a quando lui non mi fece un regalo. Negli occhi ho ancora quelle immagini, come se fosse accaduto ieri: dalla tasca estrasse una scatolina marrone e al suo interno c’era un anello. Non portava incastonata una pietra preziosa, ma era bellissimo. In quegli anni non erano possibili tali spese, bisognava pensare a far mangiare la famiglia prima di comprare anelli! Ero ancora ammutolita dal gesto, quando aggiunse che voleva portarmi a conoscere i suoi genitori – Leonor scosse la testa – ricordo ancora che il panico mi strinse il petto.
In pochi minuti lo congedai con una scusa, e con tua zia al mio fianco corsi verso casa. Mentre lei cercava di capire cosa mi fosse successo, dalla mia bocca usciva un fiume sconnesso di parole, condite da ansie e paure, ovviamente nessuna di queste era minimamente legata alla sua condizione di salute, no: ero terribilmente giovane e insicura, figlia mia. Fragile, terrorizzata dal dovermi legare davanti alla legge e davanti a Dio; accettare il regalo e la sua proposta per me era pari ad una promessa matrimoniale: come potevo sapere se lui era l’uomo che volevo per sempre al mio fianco? Così, poche ore dopo il cinema, in seguito a fiumi di lacrime versate, percorsi a piedi i pochi chilometri fino a casa sua e lo lasciai».
Leonor si interruppe per qualche secondo, così sua figlia, con sguardo confuso e divertito, ne approfittò per intervenire:
«Beh se per te è stato tremendo, figuriamoci per lui!»
Leonor scosse la testa sorridendo «Poche volte nella vita sono stata male come quel giorno ed i giorni successivi. Ero consumata dall’angoscia, dal senso di inadeguatezza. Gli volevo un bene che veniva dal profondo della mia anima, ma avevo così tanta paura delle scelte per il futuro. Ormai ero una giovane donna, ma mi sentivo poco più che una ragazzina in preda al panico di affrontare i vent’anni. Ogni mattina mi alzavo dal letto con il terrore di cosa sarebbe successo da lì all’ora in cui mi sarei coricata nuovamente, come se il solo essere sveglia potesse sopraffarmi. La mia testa era un turbinio di pensieri ed emozioni: quante giornate passai a piangere con tua zia, che in parte mi consolava e in parte mi sgridava.
Con il passare dei giorni mi resi conto che era la vita in sé a spaventarmi, non l’avere un uomo accanto. Realizzai che era per quello che lo avevo lasciato: non volevo condizionare con i miei timori un’altra vita. Non ero così egoista».
Leonor si interruppe e con un passo piuttosto svelto per la sua età, si diresse verso i fiori. Con un gesto rapido tagliò a metà ramo la rosa più bella di tutte.
«Perché?» le chiese Ambra, che l’aveva raggiunta. Invece che risponderle Leonor le chiese se avesse voglia di accompagnarla al cimitero.
Madre e figlia raggiunsero la macchina, e pochi minuti dopo varcarono il cancello cigolante del camposanto di paese. La primavera era esplosa anche tra i marmi bianchi e neri, che erano stati adornati da fiori di tutti i colori. 
Le due donne si fermarono di fronte ad una tomba di marmo chiaro, sopra la quale una foto ritraeva un uomo dal sorriso smagliante e due profondi occhi azzurri, quasi grigi.
A quel punto Leonor riprese il racconto da dove lo aveva interrotto: «Dall’orrendo sedici agosto per un po’ di tempo non ci incrociammo. Sai, senza tecnologia era facile evitarsi. Fino ad un giorno, in cui passò davanti casa mia con la sua bicicletta. Stavo per scappare in casa, ma mi vide, e non volendo essere scortese mi fermai a salutarlo: parlammo per ore. Da quel giorno le sue “casuali” gite di fronte a casa mia divennero sempre più frequenti. Spesso lo scorgevo ridere insieme ai i miei fratelli che lo avevano molto a cuore, praticamente erano amici. Alla fine mi arresi: smisi di evitarlo, e conobbi sua madre, poi tutta la sua famiglia.
Tre mesi dopo eravamo sposati. Ero insicura certo, ma lasciai andare le paure più grandi, decisa di imparare a conviverci».
«Scelta avventata» commentò Ambra.
«Forse, ma da quel giorno non ci siamo mai lasciati».
Leonor si voltò verso la figlia porgendole la rosa che teneva ancora stretta in mano. Ambra si chinò e la adagiò a fianco della foto che ritraeva l’uomo dagli occhi azzurri. 
«In questa foto il suo viso è segnato dal tempo, ma è bello come quando aveva vent’anni. Il corpo è debole, il tempo non è misericordioso: la malattia lo ha spento troppo presto».
Ambra si alzò in piedi, e mettendo una mano sul petto di sua madre le disse: «Papà non ci ha lasciato davvero, vive qui. Vive nelle rose del nostro giardino, vive nel ricordo. Sarà eterno fintantoché ci sarà qualcuno a ricordare l’amore che ci ha lasciato quando era in vita».
Leonor le sorrise e spostò lo sguardo verso il cielo, mentre con le dita accarezzava quell’anello che da più di cinquant’anni le abbracciava il dito.  

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4. Hic et Nunc

Introduzione

Hic et Nunc è nato nel 2016 dopo almeno un paio di mesi di lavoro. Scrivevo al tavolo di sala, nella casa a Pisa che condividevo con tre coinquiline al tempo dell’università.
Non sono mai stata molto brava a vivere l’attimo. Da adolescente ero letteralmente ossessionata da questo concetto. Mi dissi che se avessi scritto di un certo tipo di atteggiamento sarei forse riuscita ad assumerlo anche nella vita di tutti i giorni: volli quindi sforzarmi di raccontare con un certo modo di pensare. Direi di essere davvero migliorata negli anni. 

Ci tengo a dire che questa volta, per quanto riguarda l’immagine di accompagnamento al testo, ci siamo proprio superati grazie alla bravura e alla gentilezza del fotografo William Perugini, vi lascio di seguito i suoi profili social.
Facebook: William Perugini Potographer
Instagram:@williamperugini


Racconto

Stava sfogliando, rigirandoselo tra le mani, un piccolo quaderno vecchio e sgualcito. La prima pagina indossava un appunto scolorito, che recitava:

“Il cielo è azzurro come non lo si vede da tempo ed il sole è caldo. Oggi è una di quelle giornate che mi ricorda come l’inverno non possa durare per sempre, anche se nel momento in cui l’abbraccio dal freddo si chiude su di te, dimentichi di quanto possa essere bella la primavera.
Giornate come questa sono fatte per asciugare le pozzanghere piene di fango, per lasciar fiorire i peschi; sono la speranza dei fiori, la garanzia che un nuovo giorno può portare qualcosa di nuovo e fresco anche se, solo a pochi metri di distanza, decine di alberi hanno ancora i rami secchi.
E negli occhi delle persone si legge la stessa speranza dei fiori. Occhi grandi o piccoli, luminosi o spenti: ognuno porta una luce diversa in sé, una luce che parla meglio di qualsiasi bocca.
L’inverno non può durare per sempre, anche quando marzo si nasconderà dietro le nuvole, sono sicura che ci saranno altre giornate come questa.
Anche se l’inverno appena trascorso è stato molto più lungo di qualche mese, e ricoperto da una fredda lastra di ghiaccio, adesso so che non potevo arrendermi al gelo.
Ho sempre combattuto contro la vita, adesso è il momento di iniziare a combattere per la vita. Per i giorni di primavera. Per eliminare la lastra di ghiaccio”.

C’era una ragazza. Se ne stava seduta ad osservare le persone che passeggiavano lungo il Tamigi illuminato, raggomitolata su una panchina come un gatto soriano troppo stanco per inseguire le lucertole.
Tra le mani teneva un bicchiere di carta. Lo portava quasi fosse un mazzo di fiori che però, al posto dei petali, aveva del caffè americano fumante. Pochi minuti prima la tasca interna di quella borsa che da così tanti anni non usava le aveva riservato una sorpresa: il quaderno che un tempo accoglieva le sue confidenze e le sue riflessioni.
Aveva sorriso nel leggere quanto riportato in quella pagina, ricordando benissimo il giorno in cui aveva reso le sue riflessioni indelebili: era una primavera di alcuni anni prima, un periodo della sua vita in cui aveva iniziato a chiedersi cosa volesse dire crescere e affrontare la vita. Giorni in cui il suo cuore aveva subito delle perdite grandi, accompagnate da piccole ferite, anche se al tempo sembravano tanto impossibili da sanare.
Quelli erano i giorni in cui per la prima volta aveva deciso che avrebbe imparato ad aprire il suo cuore, a dimostrare l’affetto e a smettere di nascondersi dietro ai muri che aveva così faticosamente costruito.

Con quei ricordi le sue labbra si incurvarono ancora di più ed il sorriso raggiunse gli occhi.
Alzò lo sguardo dal quaderno per osservare intorno a lei. La strada era affollata come non mai, la palla infuocata lassù nel cielo aveva richiamato tutti: uomini, donne, bambini, ragazzi. Un turbinio di colori e di etnie. Sembrava di assistere ad una sfilata organizzata da un folle tanto erano variopinte le anime che passeggiavano lungo il Tamigi.
La vera attrazione per lei non erano tanto i vestiti od i capelli colorati dei rockettari, ma gli sguardi. Ogni singolo che muoveva i suoi passi davanti alla ragazza, aveva nelle iridi uno scintillio diverso, unico nel suo genere. Si ritrovò rapita dal notare che non tutti i bambini avevano occhi felici, non tutte le coppie si scambiavano gli stessi raggi di affetto, e che qualche solitario, come lei sorrideva perso ad osservare il sole.

Fu forse quel ricordo ritrovato sul quaderno, oppure il chiedersi quante storie potessero raccontare le persone che le camminavano davanti, o magari l’atmosfera nella sua interezza: iniziò a riflettere su dove si trovava, ma non fisicamente. «Guarda, Alice – si disse – guarda quanti passi hai già mosso nella vita adulta, quanto sei stata brava nel fare tesoro di tutte le tue esperienze».
Sfide da affrontare, traguardi da raggiungere, segni indelebili dentro di lei lasciati da episodi vissuti.
Tante battaglie era fiera di poter dire di averle vinte da sola, mentre per tante altre era stata indispensabile la presenza di persone accanto.
Ricordava il nero della rabbia, il bianco della disperazione, l’indefinito colore del dispiacere.
Ricordava l’arcobaleno di quando aveva offerto il suo cuore per la prima volta, ma ricordava anche la cecità scaturita quando quello, invece di essere accudito, le era stato strappato di mano con forza, usato come uno stupido gioco e poi calpestato.
Ricordava di come questo si fosse irrigidito, indurito come un sasso per poi sgretolarsi come creta troppo secca.
Ricordava di aver letto, chi sa dove e chi sa quando, di come le emozioni combattono nella testa delle persone per decretare cosa sia giusto e dignitoso, cosa sbagliato.
Nel vorticoso miscuglio di immagini che si susseguirono nella sua testa, nessuna di esse le richiamò emozioni sufficientemente forti da accendere la sua attenzione, tranne una leggera consapevolezza. Ad essa era legato anche quel sorriso che si era acceso sul suo volto: nessuna delle persone che l’avevano ferita era mai stata la sua prima scelta, e ciò adesso, aveva dannatamente senso.
Quali fossero state le gioie e i dolori, le piccole e grandi esperienze vissute fino a quel momento, era stata condotta a raccogliere i pezzi del suo cuore, che rovinati o meno, adesso sentiva essere al loro posto. Il prima aveva ormai tutta un’altra importanza. Le sensazioni di malinconia e le domande su come avrebbe dovuto comportarsi per tagliare fuori il rischio di soffrire di nuovo non l’attanagliavano più. Non si chiedeva cosa le riservasse il domani.
Era troppo presa dal vivere l’oggi.

Il qui.

L’adesso.

La strada che aveva percorso le aveva regalato la compagnia di due occhi che conosceva da molto tempo, ma che aveva sempre osservato da lontano cercando di accudirli con premura, senza impulso, affascinata dalla loro bellezza. Gli occhi di quella persona che in quel momento le camminava a fianco, tenendola per mano.

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3. Malinconia e tè caldo

INTRODUZIONE

Il padre di questo racconto è un insieme scompigliato di pensieri che scrissi durante una notte insonne, praticamente in dormiveglia. Una cascata di emozioni e una valanga di perché. All’epoca ero reduce da una delle varie volte in cui avevo avuto il cuore spezzato, quella volta forse, più di ogni altra. Era stata diversa, più intensa, più coinvolgente e causata in parte (almeno così pensavo) dal mio carattere troppo fiero, orgoglioso. Riempivo pagine e pagine di pensieri, ma guidata da un forte senso di dignità non proferivo verbo.


« ‘cause I can’t help but wonder, what if I had one more night for goodbye? »

These four walls – Little mix

Era un tardo pomeriggio velato di grigio come se ne vedevano tanti altri. La pioggia non batteva, era tanto leggera che nascondeva la propria presenza agli occhi di chi non prestava attenzione, ma non per questo era poco abbondante.
Cullata da questa cupa ma confortante atmosfera, mi affacciai alla finestra strizzando gli occhi. Il mio vano tentativo di mettere a fuoco l’orizzonte si concretizzò quando inforcai gli occhiali chiedendomi se l’acqua che bagnava ogni cosa fosse frutto della mia immaginazione, o se veramente il cielo stesse piangendo.
Che folle questa pioggia sottile.
Proprio in quel momento, quasi come se la natura fosse stata offesa dai miei pensieri, cadde una prima goccia pesante, un’altra ancora ed il primo fulmine squarciò il cielo illuminando il gli alberi immobili.
Di lì a poco avrei potuto sedermi davanti alla finestra con un tè in mano, ospite allo spettacolo offerto dalla natura che avevo fatto arrabbiare.
Stavo aspettando il momento propizio per concedermi di aprire la serratura dei pensieri scomodi, quelli che sono solita omettere per convenienza, per affrontare il quotidiano senza intoppi.
Purtroppo per me, la serenità duratura e reale necessita che si vada incontro ad ogni ostacolo, quindi eccomi: ero pronta ad affrontarmi.
La me stessa di qualche anno prima sarebbe caduta in uno dei suoi tipici stati di strana apatia, tuttavia quando si cambia non si è più chi eravamo soliti essere, nevvero?
Da non molto tempo avevo trovato una fedele e gentile compagna: la Malinconia. Quanti stupidi la sottovalutano, eppure è una sensazione meravigliosa: ascolta ed insegna, concede di richiamare ricordi, ma è molto severa quando esageri. Ammonisce decisa ricordandoti che i ricordi non potranno mai essere più di ciò che sono: fastidiose e rumorose immagini di cose andate, perdute, anche se impossibili da insabbiare.
Malinconia nel mio essere combatte contro Speranza, e garantisco che le due non possono vedersi.
Speranza è solita piangersi addosso, proprio per questo Malinconia non perde occasione alcuna per rimetterla in riga, insegnandole come meglio può il discrimine tra ciò che è reale e ciò che di reale ha solo una sensazione di vuoto e sconforto, come quando ci si sveglia da un sogno troppo bello.
Chi vuole – sinceramente – vivere nei sogni?
Sicuro come la morte che questo non vuole farlo Malinconia.
Così, al mattino, quando Speranza alza il capo per proporre le sue idee, Malinconia le dà le botte. Intendiamoci bene, delle botte davvero sonore. Le immaginavo come quelle che il nonno dava a mio cugino quando lo beccava a rubare le uova dal pollaio del contadino che viveva alla fine della via. Quale umiliazione, pover’uomo, se suo nipote fosse stato sorpreso nel piccolo furto.
La determinazione di mio cugino, invece, mi ricordava Speranza: per quante botte prendesse quel furfante, la tentazione di fare colazione con i tuorli freschi sbattuti insieme allo zucchero bianco era troppo forte.
La storia del pollaio è sicuramente divertente e interessante, ma il parallelismo finisce nel momento in cui ci si rende conto che Speranza e Malinconia non se la giocano solo tra di loro come il nonno e mio cugino, bensì hanno tante compagne che recitano a fianco a loro.

Quando un ennesimo lampo abbagliò il cielo mi riscossi dai miei pensieri rendendomi contro che era giunta l’ora di fare una doccia, dal momento che, contro ogni mia aspettativa, avevo accettato l’invito a cena delle mie amiche – chiara dimostrazione che l’apatia dormiva un sonno profondo: potevo stare in mezzo ad altri esseri umani senza odiarli –.

Forse fu a causa dell’aver atteso un attimo di troppo, o forse fu il sorso di tè rilassante… invece di recarmi in bagno rimasi seduta e mi domandai cosa sarebbe successo se noi avessimo avuto una sera in più.

Una sera in più per salutarci.

Una sera in più per salutarti.

Banale.
E’ una domanda che può risultare banale, ronza in testa a molti quando si trovano nella situazione in cui mi trovavo, ma io da quella domanda ero stata colta alla sprovvista.
Non ero mai stata molto brava con i pensieri gentili, la mia dura indole aveva sempre puntato il dito, cercato accuse e colpe,  assaporando possibilità di vendetta. Avevo sempre portato avanti la prima sentenza, disdegnando di opinioni contrarie che mai ascoltavo.
Per questo mi sorpresi così tanto, mi sembra di ricordare che tra le labbra sibilai «Davvero me lo sto chiedendo? Proprio io?».
Con la voce del pensiero mi risposi che non solo mi consentivo di porre la domanda, ma che volevo anche una risposta.
Fu a quel punto che Malinconia, affiancata dalla sua ombra Razionalità, mi tirò un calcio. Già, perché avevo appena dimenticato di osservare l’ovvio: avevo già avuto quella sera in più.
La sera in cui ci siamo parlati di nuovo, ci siamo salutati a modo nostro, con molte parole che hanno avuto la solidità necessaria per chiarire quello che non era stato chiarito e per placare le ire nate dall’ingenuità del dubbio, accompagnate da quelle nate da ferite profonde, ma in via ormai, di definitiva guarigione.
Quella sera in più è stata la sera che tutti immaginano sempre, che tutti richiedono silenziosamente sotto consiglio di Speranza, ma che in pochi riescono a ricevere davvero.
E io… nella mia vita non avevo nemmeno mai avuto la sensazione di desiderarla, troppo orgoglio. Impossibile da credere che mi ritrovai a rendermi conto che l’avevo ricevuta in dono dalle coincidenze. Come avrei potuto non rimanere un poco perplessa?
Era tempo, infatti, che Speranza aveva rinunciato a lusingarmi, niente più tentativi di farmi pensare a come sarebbe stata, quella sera in più. Così come lei era silenziosa anche Malinconia. Nessuna delle due aveva sprecava fiato.
Era Razionalità, pomposa e imbellettata, la vera protagonista.
Le guardava dall’alto in basso dicendo «Io sapevo che è da stolti desiderare una sera in più».
E aveva ragione… perché non basta mai.
Ogni sera in più cerca un’altra sera in più.
Ogni frase in più crea domande che vorrebbero nuove risposte.
Speranza inizia ad essere fastidiosamente interessata a parlare, così Malinconia deve fare gli straordinari.
E la povera Razionalità (non che a lei dispiaccia, è una gran presuntuosa), dopo aver ammonito tutti, si accolla il fastidioso compito di ribadire a tutta la baracca che se è andata in un modo, non sono gli abbracci di un momento, le carezze o i baci a cambiare la realtà.
Anche se mi stringevi, anche se sembravi lungi dal lasciarmi andare di nuovo, se tu ed io ci siamo salutati una prima volta, che il saluto sia stato piacevole o meno, la concessione di un’ulteriore possibilità di salutarci, non avrebbe fatto cambiare assolutamente niente.
Non avevo – e non ho – mai visto persone tornare indietro, persone in grado di rivedere i propri passi andando oltre all’orgoglio.
Avrei potuto accusare il momento di essere colpevole, gli animi di non essere abbastanza maturi, avremmo potuto chiederci come sarebbe andata con la possibilità di scegliere un altro tempo in cui incontrarci, o cosa sarebbe successo se solo avessimo avuto qualche ora in più.
Ma più di ogni altra cosa, non potei fare a meno di domandarmi cosa sarebbe successo se non avessi scelto di fare finta di niente e chiudere tutto, se fossi stata diversa, più docile, se avessi davvero provato a portarti via con me, invece di limitarmi a pensare – fortemente – di averlo fatto.
Anche se sapevo che non volevi, anche se sapevo che la tua serenità non dipendeva da me.
Io scorgevo i tuoi occhi, mi guardavano, ma non  mi vedevano.

A quel punto della mia conversazione interiore il tè si era raffreddato. Forse la temperatura di un autunno che volge al termine aveva accelerato il processo, ma era comunque un lasso di tempo abbastanza lungo, indubbiamente sufficiente per concedersi certi pensieri prima di lasciarli andare una volta per tutte, per sempre.
Mentre mi alzavo dalla sedia facendo evaporare le mie sensazioni, un attimo prima di svanire in fumo una domanda silenziosa mi attraversò la coscienza, a dispetto di Malinconia, Razionalità e Speranza:

«Se mi voltassi e ti chiedessi un’altra penultima volta per salutarci, verresti?»

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Imparare a volare

2. Il vento

Introduzione

Il vento è il secondo racconto della raccolta “Imparare a Volare”. È stato scritto in tanti momenti diversi, una creazione in divenire, la prima sperimentazione nel 2015 in cui ho cercato di dare vita ad una storia in cui i concetti facessero da contorno. Il vento è stato scritto con l’ambientazione e i colori negli occhi: stavo di fronte al pc immaginando le colline Lucchesi, il sole arancione, il vino, ed un grande casolare rosso mattone. 
Alcuni scambi di parole in questo racconto sono stati ispirati da conversazioni che al tempo erano attuali, che mi rimbombavano in testa, e  che oggi, chi sa perché, non ricordo neanche più.


Quando le porte del treno si aprirono, il sole si stava preparando a coricarsi dietro le colline. I colori che la abbagliarono erano così vividi che le parve di essere inciampata dentro ad un quadro: i girasoli e le piante verdi si abbracciavano salutando l’azzurro che da li a qualche ora avrebbe lasciato lo spazio all’oscurità.  Su quella tavolozza due nuvolette bianche si rincorrevano spinte dallo stesso vento che scompigliava i capelli biondi della ragazza solitaria.
Era una calda sera di settembre, l’epilogo di una delle tipiche giornate estive che non vogliono arrendersi all’avvento dell’autunno.

Appena scesa dal treno, la giovane si era ritrovata in un paesino sperduto. Non aveva la più pallida idea di che luogo fosse: durante il viaggio si era addormentata per qualche ora, non appena sveglia si rese conto che il tempo era trascorso senza il suo consenso, così si era precipitata alla porta del vagone scendendo frettolosamente alla prima stazione.
Nell’edificio della ferrovia intravide una sola biglietteria. Un cartone bianco e consumato portava sopra una scritta poco definita che recitava “chiuso”. Il sospetto che il cartello fosse lì da mesi le attraversò la mente, tanto quello era rovinato.
Fuori dalla stazione alcune arzille vecchiette sedevano ad un tavolino, protette dal sole all’ombra di una veranda. Le donne vedendo giungere quella giovane titubante e con aria un poco spaesata, in preda ad una smaniosa curiosità, avevano distolto la loro attenzione dalle carte e sorridendo le avevano augurato una buona serata.
L’apparizione di una ragazza di quell’età in paese era un vero e proprio evento, le carte potevano sicuramente aspettare; non appena la giovane si allontanò di qualche passo le vecchiette iniziarono a confabulare tra di loro.

<<Cecilia, hai mai visto quella biondina? Così giovane e in giro da sola con uno zaino! E hai visto i calzoni? Sono tagliati malamente… le scoprono le cosce! Le ragazze oggigiorno non hanno più il senso del decoro. Una bella gonna dico io, sarebbe molto meglio>> aveva tentato di bisbigliare – con poco successo – una di loro.
<<Mai prima di oggi>> rispose una di quelle.
<<I primi alloggi? Ma che dici?>> la ragazza, che intanto stava camminando con passo ciondolante nella direzione opposta, udendole nascose una risata con un colpo di tosse: evidentemente una delle signore doveva essere un po’ sorda.
<<Ha detto mai prima di oggi>> preciso una terza voce tra le anziane.
<<Come?>>
<<Mai prima di oggi>> dissero in coro tre di loro.
<<Oh misericordia Alberta, che giornate difficili quelle in cui dimentichi l’apparecchio acustico>> asserì la signora di nome Cecilia sbuffando e rimescolando le carte.
Per la giovane sarebbe stato molto divertente rimanere nei paraggi ad ascoltare clandestinamente la conversazione, ma non poteva permetterselo. Doveva cercare un posto dove trovare qualcosa da mettere sotto i denti e soprattutto, un posto dove dormire.  

Dopo aver individuato un bar che risultò essere chiuso, si avviò verso quella che sembrava la strada per il casolare che faceva capolino sulla collina.
Passeggiava con tranquillità in un vitigno. Dopo aver rubato qualche chicco d’uva dai filari, si era persa nell’ammirare il fascino del tramonto, uno dei suoi momenti preferiti della giornata.
<<Non è molto educato rubare l’uva. Non è tua>>.
Lo sguardo della ragazza cadde sulle proprie mani che la incastravano con le schiaccianti prove del delitto: erano chiuse a coppa per sostenere una manciata di acini viola, impossibili da nascondere. Di fronte a lei c’era un ragazzo non molto alto con un ciuffo di riccioli neri e ribelli che gli cadevano morbidi sulla fronte. Aveva un’aria un po’ scanzonata.  <<Ehm… è tua?>> accennò con sguardo colpevole.
<<Così sembrerebbe>> commentò lui.
<<Mi spiace… davvero! Ero diretta al casolare, ma sono stata distratta dai colori del tramonto e ho preso l’uva con superficialità, senza pensare a quello che stavo facendo>> mentre formulava la frase, il ragazzo si avvicinò, prese tre chicchi e dopo esserseli cacciati in bocca, li schiacciò tra i denti ammiccando.
<<Tranquilla, basta non dirlo a mio padre>>.
Detto questo si avvicinò al filare e staccò un grappolo intero. <<Direi che anche questo non è mai successo. Vieni. Se ti piace il tramonto non vale proprio la pena stare qui, ti porto io nel posto giusto>> e senza aspettare che lei gli rispondesse, né tanto meno presentarsi, si avviò a passo spedito tra le piante.
Qualche minuto più tardi, i due sedevano sul prato ombreggiato da folti olivi, di fronte a loro si vedeva tutta la piccola valle e le montagne oltre cui il sole stava scomparendo.
<<Chi sei? Cosa fai da queste parti? Non si vedono spesso giovani sconosciuti>> commentò lui.
<<Viaggio. Mi sono addormentata in treno e appena sveglia sono scesa alla prima stazione. E in quanto a chi io sia, vorrei saperlo anche io. Tu chi sei?>> il ragazzo la guardò incuriosito, si strinse nelle spalle e disse semplicemente <<Il figlio di mio padre, il proprietario di questo podere>> poi, scrutandola come se fosse un delinquente in fuga, aggiunse <<Sei in vacanza e ti sei persa?  Sei scappata di casa e non vuoi lasciare tracce? O magari hai qualche problema con la legge?>>
<<No assolutamente, nessuna delle tre – rise – sono partita un po’ di tempo fa con tanta voglia di vedere cosa ci fosse fuori dalla mia realtà, mi sono sempre spostata, non ho una meta precisa>>.
<<Bello – disse lui con aria distratta – e perché viaggi in questo modo?>>
<<Voglio vedere un po’ di mondo. Soprattutto voglio vedere le persone>>.
<<Non avrai molto da vedere qui. Siamo in campagna! A parte qualche vecchio, i loro nipotini e la mia famiglia puoi giusto presentarti a qualche pecora. Faresti bene a cercare una meta migliore>>. La ragazza era visibilmente divertita dal modo di fare del riccioluto, per altro non era la prima volta che uno sconosciuto non capiva il suo bisogno.
<<Io non sono d’accordo, trovo questo posto molto interessante. C’è un bel silenzio tra queste colline, un atmosfera utile per ordinare pensieri confusionari. Hai mai provato la sensazione di essere sommerso da ondate di riflessioni aggrovigliate e sovrapposte, tanto da non capire quale di esse voglia prendere il sopravvento sul rumore di fondo?>>
Dallo sguardo del suo interlocutore ebbe l’impressione che lui pensasse di avere davanti una un po’ svitata.
<<Non credo di seguirti>>.  
<<Non sto vaneggiando senza senso, anzi sto cercando un po’ di chiarezza>>.
<<Prenderti una camomilla e dormirci sopra nel letto di casa tua ti sembrava troppo semplice? Non ti piace il main stream, eh?>>
Lei si alzò in piedi e prese a passeggiare tra gli olivi.
<<Penso che sia molto più interessante bearsi dello stimolo di luoghi mai visti, rispetto all’ordinario. Non è più facile o più difficile, è… diverso. La terra è vasta, ci pensi a quanto sono diverse le menti di tutte le persone che vi muovono i propri passi ogni giorno? Siamo illuminati tutti dallo stesso sole, e baciati tutti dalla stessa luna, ma le mie percezioni sono diverse dalle tue, così come è diversa la percezione delle signore che ho incontrato fuori dalla stazione. Gli esseri umani sono i più grandi mercanti che esistono per il fatto stesso di essere umani. Ognuno di loro porta con se una grande ricchezza>>.
Il ragazzo era interdetto e scosse la testa <<Se avessi un tesoro in tasca mi comprerei una casa in città e mi costruirei una vita lì>>.
<<Non hai modo, a priori, di sapere se sarebbe la scelta giusta>> lo apostrofò lei.
<<Lo sarebbe. In città non sarei più costretto a passare le giornate a prendermi cura di una stupida vigna della fattoria. Potrei diventare un uomo d’affari, diventerei ricco e potrei avere qualsiasi cosa di cui io abbia bisogno. Potrei avere anche tutte le donne che voglio>>.
<<Io a casa ho tutto quello di cui tu pensi di aver bisogno. Ho una bella famiglia, viviamo in una città grande. Mio fratello sta per laurearsi in medicina, io avevo un buon lavoro. Sicuro anche>>.
<<E vorresti dirmi che hai lasciato tutto questo per partire con un inutile zaino in giro per le campagne?>> era sconcertato.
<<Si. Non sempre tutto ciò che appare perfetto e desiderabile agli occhi di chi ne rimane esterno è sufficiente per dire “ho abbastanza”. Io voglio di più. Voglio potermi confrontare con il mondo, voglio crescere con ogni esperienza, essere smussata e contraddetta. Tornerò a casa un giorno non molto lontano, e ci tornerò con una grande ricchezza>>.
Il ragazzo notò che gli occhi di lei avevano assunto una nuova luce, gli ultimi raggi di sole le illuminavano le iridi verdi facendole brillare come smeraldi, e allora seppe che le parole della giovane non erano lasciate al vento, non erano grosse frasi presuntuose infiocchettate solo per apparire di bell’aspetto e suscitare ammirazione. C’era qualcosa di più in quello che lei voleva dire, ma non era sicuro di riuscire a coglierne fino in fondo il significato, così lasciò perdere almeno per il momento e le chiese da quanto tempo stesse viaggiando.
Era trascorsa qualche settimana dalla sua partenza.
<<Sono partita con un po’ di soldi e mi fermo dove trovo ospitalità o dove posso lavorare per qualche giorno in modo da riempire il portafoglio per il successivo viaggio in treno>> spiegò.
Continuarono a parlare fino a che il brusio dei pensieri della ragazza non vide emergere la necessità di quel momento: un letto e un pasto. Chiese al riccio se fosse disponibile ad offrirle ciò di cui aveva bisogno, e così ottenne di rimanere a dormire nel casolare per qualche notte. In cambio avrebbe aiutato la famiglia nei lavori della vigna.
Una nuova tappa del suo viaggio stava prendendo forma.
Mentre lo seguiva dentro l’abitazione, attendeva con trepidazione di vivere le nuove esperienze in campagna.

Intanto una parte di lei già pensava a dove l’avrebbe condotta il vento della settimana successiva.

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Imparare a volare

1. Vide la luna

Introduzione

La primissima bozza di “Vide la luna” si intitolava “Quando vide la luna”. Era un racconto molto più breve, privo di dialoghi e con una sintassi ancora più semplice. Fu il primo scritto che ho potuto definire racconto, e fu anche l’input che mi servì per scoprire che ciò che scrivevo avrebbe potuto suscitare interesse negli altri; questo perché mio padre dopo averlo letto, ignaro del fatto che lo avessi scritto io, mi disse “Bello! Chi è l’autore?”. Papà è un avido lettore di libri, e questo suo commento fu per me una grande e piacevole sorpresa. 
Era il 2015. Non sapevo che questo racconto sarebbe diventato il primo di una raccolta composta da tredici parti.


Racconto

Guidava lungo la strada silenziosa senza prestare troppa attenzione a dove stesse andando. Si fermò solo quando la strada finì e si ritrovò in un grosso prato circondato da alberi intervallati di tanto in tanto da vari sentieri che si inoltravano nel bosco.
L’eccitazione per l’inizio delle ferie le aveva fatto venire voglia di una bella corsa, per questo, invece di tornare a casa, si era lasciata guidare dal senso dell’orientamento e dall’istinto, ritrovandosi in un luogo non trafficato dove poter fare movimento. Si guardò intorno per accertarsi che non ci fossero occhi indiscreti, e rapidamente si sfilò la gonna per lasciare il posto alla tuta. Una volta messe le immancabili cuffiette per la musica nelle orecchie si diresse verso le piante, notando con piacere che la vegetazione, pur infittendosi, lasciava penetrare tra le foglie pochi raggi di sole, così il tramonto le fece da compagno durante quella breve corsa in comunione con la natura.
Quando tornò alla macchina era piuttosto stanca e affamata, ma anche appagata.
Dietro le montagne, dove si era appena nascosto il sole, rimaneva solo una luce rosata e qualche nuvoletta. La notte sarebbe giunta presto, ma lei non aveva ancora voglia di rincasare, così  allestì la cena alla meglio con un pacchetto di cracker.

Non si definiva una persona sportiva, ma le piaceva mantenersi attiva: solo così riusciva a sentirsi padrona del proprio corpo. La corsa le piaceva più di ogni altra disciplina perché in essa trovava i giusti stimoli per spolverare i pensieri e lasciare la mente più leggera – per quanto la propria natura seria e riflessiva le concedesse –. Si sdraiò sull’erbetta morbida e chiuse gli occhi attendendo la notte. Quando le palpebre le liberarono nuovamente la vista il cielo era diventato di un blu tanto intenso da sembrare nero, su quella tela di ebano spuntavano i primi timidi puntini luminosi. Mentre osservava le stelle le parve di sentire odore di sigaretta, un istante dopo tra i suoi occhi e il cielo fluttuarono morbide nuvolette di fumo disperdendosi nell’aria. Si mise seduta guardandosi intorno con circospezione, perdendosi così la prima stella cadente della notte. Qualcun altro, invece, quella stella l’aveva notata. <<Stai per esprimere un desiderio?>> Parole nella notte. Trasalì. <<Chi c’è?>> chiese al buio. <<Nessuno, sono solo un vecchio di passaggio>>. La ragazza posò  gli occhi su una sagoma poco distante: un anziano signore con una barba argentea e scompigliata stava passeggiando sul prato con lo sguardo verso l’alto. Aveva le braccia indietro, con le mani dietro la schiena, e proprio in quel punto vi era un puntolino fiammeggiante: la sigaretta.

Ognuno assecondò il silenzio dell’altro, fino a che lei chiese di poter fumare insieme a lui. <<In cambio del tuo nome>> disse il vecchio. <<Alice – non fece in tempo a rispondere che lui le lancio il pacchetto, che le cadde tra le mani – ad ogni modo perché dovrei esprimere un desiderio?>> <<Non hai notato la stella cadente? E’ la prima che vedo quest’anno>> <<Sono stata distratta dal tuo arrivo, ma anche se l’avessi vista non avrei espresso alcun desiderio, non sono il tipo di persona che esprime desideri – accese la sigaretta – preferisco i fatti>>. <<Dovresti invece – si sedette accanto a lei, aspirò intensamente per due volte e rilasciò il fumo in cerchietti – essere capaci di formulare il proprio desiderio più nascosto in poche e brevi parole è una ricchezza. O se preferisci vedila come una sfida, è molto difficile riuscirci>>.
<<Le stelle cadenti sono come le lucciole: un gioco per bambini. Alla fine le lucciole non portano i soldi, ed esprimere desideri non li farà avverare>> ma lui non si arrese <<Sono proprio quei giochi che rendono i cuori più leggeri, alimentano le speranze e la fantasia, cosa c’è di male? – la osservò con la coda dell’occhio – gli occhi dei bambini sono molto più felici di quelli degli adulti>> Alice sbuffò <<Tu ed io non siamo bambini e anche se non volessimo ammetterlo sappiamo di aver perso la loro leggerezza – spense la sigaretta schiacciandola sul prato – la speranza stessa è un male, certe volte>>.
Lui accennò un sorriso guardandola sottecchi, ma lasciò che la breve discussione rimanesse sospesa nell’aria tra loro e le luci delle stelle.

Il tempo passava e il vecchio non si muoveva da lì.

<<Ehi di’ un po’, cosa vuoi?>> esordì lei.<<Niente in particolare, Alice. Mi fa piacere un po’ di compagnia… Oh! Un’altra stella cadente, guarda – un attimo di sospensione mentre seguiva la scia con lo sguardo – la solitudine: una bella cosa, non trovi anche tu? – scosse la testa come se avesse detto un’ovvietà – ma certo, se tu non sapessi apprezzarla ed accoglierla come una cara amica non saresti qui. Però a volte è piacevole condividerla con qualcuno>>.
A quel punto la ragazza si concesse qualche secondo per osservarlo meglio. L’uomo aveva gli occhi rivolti al cielo erano azzurri ghiaccio e il suo sguardo era molto acceso, quasi come se in quell’involucro anziano fosse conservata un’anima molto più giovane. Anche il modo in cui sedeva non si addiceva ad un individuo che dimostrava quanto meno ottant’anni.

Improvvisamente Alice si sentì pervasa da una bella sensazione di tranquillità e pace.
<<La solitudine è una sfida, vecchio. Può essere fredda, crudele e spietata, anche quando la si pensa confortante, calda e cristallina. Molte, troppe persone, ne sono spaventate. Oserei dire terrorizzate>> disse lei, tornando ad osservare il cielo imitando il suo compagno.
L’uomo, per la prima volta, la guardò direttamente
<<Non è la solitudine nuda e cruda che spaventa. Quello che inquieta è l’affrontare le ombre che si nascondono dietro di essa: le ombre della nostra coscienza, le paure nascoste, i fantasmi che ci seguono ogni giorno e che vengono occultati dalle chiacchiere dei luoghi affollati. Le persone che non accolgono quei fantasmi non riescono a sentire cosa essi abbiano da dire. Hai mai pensato a quanto sia difficile affrontare sfaccettature di noi stessi che abbiamo – volutamente o meno – messo in secondo piano?
Cose che abbiamo nascosto nei meandri della nostra mente?
Tutti noi abbiamo dei lati oscuri, demoni, ombre o come diavolo tu preferisca chiamarle>>.

<<Si possono avere dei demoni se la nostra vita scorre lineare e tranquilla?” chiese Alice.

<<I demoni sono parte del nostro essere, non nascono solo da brutte o cattive esperienze, da torti subiti o ferite sempre aperte. Alcuni, anche imponenti, nascono da meditazioni sfortunate, pensieri rumorosi, situazioni perse dalla memoria ma vive e nitide nel nostro subconscio, situazioni che avremmo potuto vivere o affrontare in modo diverso, sia esso migliore o peggiore>>.
Il vecchio prese il pacchetto di sigarette e lo allungò verso Alice che accettò di buon grado; qualche nuvola di fumo dopo si sentì pronta a continuare la conversazione.
<<Io credo di avere dei demoni, o almeno di averli avuti. Ci ho parlato. Mi hanno spaventata, ma alla fine ho imparato a capirli>>.
Lui rimase sorpreso, e commentò con tono ammonitore, ma non aggressivo <<Sei una ragazza giovane, Alice. Diamine, ci arrivi a 25 anni? Mi piacerebbe poterti dire che sei fortunata se hai già affrontato i tuoi demoni, ma la verità è che sei sfrontata – si fece serio – tanti anni sono trascorsi da quando avevo la tua età. In questi anni ho visto persone seguite da demoni enormi e spaventosi. Uomini e donne soffocati dalle proprie ombre, ignari della loro esistenza, o peggio, ciechi per scelta – aspirò – e te, giovane sfacciata, parli come una donna vissuta. Stai forse cercando di paragonarti all’esperienza di un vecchio? Attenta a ciò che dici e a come vivi. Sopravvalutarsi è umano e comune in tutte quelle persone che sono perseguitate da demoni che non vogliono vedere – il suo tono si addolcì – vuoi essere parte di quella cerchia di persone che un giorno crolleranno in pezzo sotto la violenza delle loro stesse azioni ed emozioni?>>.


Alice rimase abbagliata dall’enfasi di quel breve monologo.
Avrebbe voluto ribattere, mostrare a quello sconosciuto la forza di cui era dotata, l’esperienza che sapeva di avere sulle spalle nonostante la sua giovane età, ma qualcosa la bloccò.
Un piccolo allarme, dalla delicatezza di un sonaglio per bambini le risuonava dentro. In fondo, oltre l’orgoglio, sapeva che l’uomo aveva ragione.
Aveva paura.
Il vecchio la stava guardando come se sapesse perfettamente che i pensieri di lei si stavano ingarbugliando, e sorridendo, con lo sguardo di nuovo assente rivolto verso il cielo, le disse: <<Che strumento affascinante, misterioso e complicato il cervello umano. Siamo in grado di crearci e distruggerci con le nostre stesse mani solo fermandoci ad osservare un cielo stellato con una sigaretta in mano – si alzo e iniziò a passeggiare avanti indietro sull’erba – non aver paura, vivi. La vita è sempre bella, è più bella della paura>>.

La notte stava raggiungendo il suo momento più freddo, ma Alice non era sicura se i brividi che le percorsero la spina dorsale fossero figli del clima o della sensazione di disagio che l’avvolgeva. Stava per parlare, così da concludere la conversazione e congedarsi, ma ancora il vecchio parlò.

<<So cosa stai pensando. Ho insinuato in te il seme del dubbio.
Credo che anche tu sappia che verranno giorni, in futuro, in cui non basterà una corsa a rinfrescarti. Magari ti sentirai persa, conoscerai demoni che già esistono in te ma non sapevi di avere fino a quel momento. In quei giorni ricorda che hai tutta la vita davanti a te per affrontarli, ed un mondo intero in cui cercare i giusti suggerimenti per vincerli>>.

Alice si girò per ribattere, ma alle sue spalle, nell’esatto punto in cui fino ad un istante prima avrebbe giurato vi fosse il vecchio, non c’era nessuno. Aprì gli occhi e li sbatté più volte. Sopra la testa di Alice il cielo era acceso di puntini luminosi. Una stella cadente attraversò il suo campo visivo. Intorno a lei c’era solo il prato, gli alberi e la sua macchina.

Dietro una nuvola, nell’angolo più remoto del cielo, vide la luna.