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Collaborazione Biró

L’Asciuga Pensieri

Sono lieta di presentarvi un’altra collaborazione con @biroconlaccento! Il racconto di oggi è nato, come il precedente, sulla base di due elementi da rendere centrali nella storia: un asciugamano ed una partita di basket.

Devo ammettere che avendo delle conoscenze pressoché inesistenti su questo sport ho temuto di dovermi arrendere. Invece alla fine sono riuscita ad escogitare una storia che avesse un filo logico! A voi il link per raggiungere il racconto ⇓⇓⇓⇓

L’asciuga pensieri

Buona lettura! Condividete, commentate, fate critiche costruttive, io vi aspetto 🙂

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Imparare a volare

7. Tempo Tiranno

INTRODUZIONE

Questo racconto del 2016, apparentemente semplice e non troppo articolato, è stato difficile da scrivere: sia come tempistiche, che per quanto riguarda la sintassi. Sono stata ispirata in momenti diversi, ben distinti, che ricordo come fosse ieri. 
La sua collocazione a metà raccolta è ben studiata, ma sta a voi capire cosa trarre emotivamente da questa mia scelta. 
Una curiosità: “Tempo Tiranno”, inizialmente, a coronare la mia difficoltà nel trovare titoli giusti, prendeva il nome “La Landa Desolata”. 
Buona lettura.


La landa desolata era spruzzata di neve per buona parte dell’anno. All’alba di novembre, i rovesci iniziavano a trasformarsi in nevischio, e il manto bianco abbandonava l’ambiente solo ad inizio maggio. In estate – sempre se essa potesse esser definita tale, visto le glaciali temperature di luglio –, i timidi arbusti della pianura erano coccolati da fili d’erba verdi e gialli, e il paesaggio acquisiva così leggere sfumature di colore.
Anche nella bella stagione, però, un occhio attento avrebbe visto ben poco oltre ad un denso bianco sporco: la fitta nebbia, che ingrigiva l’orizzonte quasi ogni giorno, aveva il vizio di scivolare fino a soffocare qualsiasi slancio di vita vegetale.
Solo nei rari giorni di chiaro, accarezzando con mano i fili d’erba e toccando con gli occhi l’orizzonte, si potevano scorgere le dolci vette delle catene montuose: pendii erosi dal vento e dal tempo che, per quanto poco piaccia all’essere umano, scorre in modo inesorabile, portando ogni giorno via con sé piccole parti di ogni cosa.
In quello scenario di desolazione, sul tetto di un colle ad ovest dei rilievi maggiori, vi era un unico segno di presenza umana: un’abitazione maestosa, forse nata sul rudere di una torre di osservazione medievale. Vi abitava un vecchio signore con le sue adorate sette capre e tre domestici: maggiordomo-stalliere, la di lui moglie, e la di lui sorella, affetta da mutismo.  
Lassù la vita scorreva lenta, in modo ripetitivo, con i sospiri ed i pensieri di quelle persone che si a amalgamavano al silenzioso squallore dell’ambiente circostante.
Il dì era sì fatto: ogni mattina il maggiordomo si recava nella stalla alle prime luci dell’alba, accudiva le capre e mungeva il latte fresco, da cui poi la moglie ricavava un buon formaggio.
Al canto del gallo, la sorella muta si presentava nella camera del padrone di casa aprendo le pesanti tende marroni, e lo svegliava servendogli la colazione. Costui, dopo essersi rifocillato, spalancava la finestre della camera da letto ed osservava l’orizzonte. Lì rimaneva come in sacra contemplazione, immune al gelo che penetrava nella stanza. Lo sguardo del signor Cadringher indugiava per lo più ad est, dove la collina su cui si ergeva l’abitazione scendeva dolcemente tuffandosi in un mare di alberi tanto fitti e scuri, che al tramonto potevano essere scambiati per un mare di petrolio.
Dal quel bosco negli ultimi vent’anni non era mai apparsa anima viva: anche gli esploratori più coraggiosi erano intimoriti dall’inospitalità del luogo, mentre i pochi che si avventuravano nella pianura erbosa preferivano passare da ovest, dove una singola, timida strada collegava la landa al resto della civiltà.
Nel pomeriggio, il silenzioso padrone di casa cambiava punto di osservazione: il salottino della libreria era il luogo designato. Si accomodava sulla polverosa poltrona al di sotto della più grande delle finestre, e sprofondando nel tessuto, tra una pagina ed un sospiro, sbirciava verso l’orizzonte, anche nei giorni in cui questo era fatto da sola nebbia.
Le visite all’antica abitazione del signor Cadringher non solo erano infrequenti, ma addirittura praticamente inesistenti.
Il fedele maggiordomo, in sella al vecchio stallone, era l’unico individuo che si muoveva tra quella collina dimenticata da Dio e il resto del mondo, e lo faceva più per dovere che per piacere: qualsiasi contadino, panettiere o commerciante in genere, rifiutava di consegnare in quel luogo.
Più e più volte il padrone di casa si era domandato come mai quello stolto del servo – famiglia annessa – non lo avesse ancora abbandonato a sé stesso, ma non aveva mai espresso a voce alta il suo pensiero. Doveroso aggiungere che, se non fosse stato troppo preso dall’osservare il susseguirsi delle stagioni e l’erodersi delle montagne, avrebbe anche potuto essere grato per quelle silenziose presenze che gli assicuravano il formaggio fresco ogni mattina.
Donát – questo era il nome del vecchio – viveva in isolamento da quando ne aveva memoria, e quest’ultima iniziava da un preciso momento: quando i suoi ultimi affetti erano stati consumati dallo stesso vento che erodeva le montagne.
Alcuni familiari erano stati portati via anzitempo dalla meschinità del Fato, mentre altri si erano semplicemente stancati di quell’uomo taciturno, schivo e introverso, abbandonandolo a sé stesso.
Donát aveva vissuto una vita lunga: dapprima, brevemente, aveva valutato il confusionario mondo esterno, per poi rinchiudersi nel confortevole caos della solitudine, che lo aveva temprato e accompagnato non verso l’autocommiserazione, ma all’accettazione.
La stanchezza di vivere era giunta quando egli era ancora molto giovane, ma di quel momento non ricordava molto.
Talvolta, in inverno, quando le giornate erano tanto brevi da sembrare notti chiare, e la neve cadeva così fitta da far pensare che il bianco fosse il Tutto, qualche ombra gli attraversava gli occhi. Il mondo non esisteva più, e lui sentiva le feroci pugnalate inferte dalla perdita di fiducia, il pizzicare di ferite che solo il tradimento di una persona amata può inferire.

Ma non permanevano.

Rapidamente, silenziosamente, i dolori si mescolavano con la neve, e il vento spingeva le sue piogge interiori verso le montagne, e le trasformava in quelle tempeste bianche che nascondevano l’orizzonte.
Quella desolazione e l’esistenza trascorsa nascosto nel nulla avrebbero accompagnato Donát fino al momento in cui l’ultimo respiro gli si fosse incastrato in gola, soffocandolo.
Tale consapevolezza non lo aveva mai preoccupato, almeno fino al giorno in cui un ragazzetto sgangherato, smilzo e con i vestiti stracciati, giunse alla sua abitazione.
L’incontro avvenne casualmente, durante l’abituale passeggiata di Donát nel roseto.
Il vecchio non diede molta udienza al giovane, ma lui parlava: c’era, da qualche parte, un mondo diverso da quello in cui l’uomo viveva, un mondo in cui il rosso delle rose non ricordava solo il colore del sangue.
Il giovane parlava dei colori brillanti della natura, dei campi di papaveri rossi e delle coccinelle, dei fiumi tranquilli circondati dal verde scintillante delle piante illuminate dal sole. Parlava dei pavoni maestosi e imponenti, della libertà delle aquile, di pendii bagnati di lava che si gettavano coraggiosi nell’oceano, specchiandosi in un blu più profondo della notte. Raccontava di uomini che mangiavano fuoco, e di cavalcate in enormi praterie. Parlava di laghi immobili come specchi, del mondo dei curiosi, degli avventurieri, degli scienziati. Il mondo di chi sdegnava la codardia e ammaestrava la propria esistenza con coraggio, come se fosse uno spettabile direttore d’orchestra di fronte agli strumentisti.
Parlava di un mondo diverso da quello dell’accettazione, nonostante la paura. Un mondo vissuto da chi non ha perso la speranza, anche se non crede più in niente.
Il ragazzo era l’incarnazione dell’entusiasmo, dalla sua bocca sgorgavano parole di disarmante semplicità, arricchite da occhi che avevano vissuto poco, ma allo stesso tempo conoscevano più cose di quante Donát avesse mai visto in una lunga vita solitaria.
Quel giorno qualcosa cambiò nel cuore di Donát. Una sensazione dimenticata lo accerchiò: ebbe paura di sé stesso, di non aver mai veramente vissuto.

Ma nonostante ciò non si mosse. Non subito.

Continuò ad attendere per giorni, mesi, che poi si trasformarono in anni. Aspettava che il coraggio di cambiare lo facesse correre per la prima volta nella vita.
Fu una mattina, quando svegliandosi vide per la prima volta un’aquila sorvolare la valle innevata, che finalmente decise: sarebbe partito non appena l’inverno fosse finito. Avrebbe cercato i colori della vita – l’unica che aveva a disposizione – e il vento della speranza, così da accogliere la possibilità di un nuovo inizio, un altro ancora.
Ma il tempo fu tiranno, non lo perdonò.
Donát, colpito da una forte polmonite, e indebolito dall’età, nonostante le cure del maggiordomo, non superò l’inverno. Lasciò la landa desolata e la vita in perfetta sintonia con il modo in cui aveva sempre vissuto: da solo ed in silenzio.

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Imparare a volare

6. Wanderlust

INTRODUZIONE

Vi presento il sesto capitolo della raccolta “Imparare a volare”. Il caso vuole che io non ricordi bene come sia nato questo racconto, ricordo però quando: era il 2016, l’anno in cui il mio viaggio è veramente iniziato. Tenete con voi questo racconto, leggetelo con la consapevolezza che la sua posizione a metà raccolta ha un ben preciso significato: da adesso in poi la narrazione diventerà cupa, e, prossimamente, vedranno la luce racconti intrisi di malinconia, melanconia e dolore. 

Per questo racconto ho chiesto alla mia cara amica @giulia_trio_art (studente di pittura ad olio) di creare un’illustrazione ad hoc. Dopo una fase iniziale in cui le ho suggerito le mie idee, abbiamo concluso che la vera espressione artistica richiede spontaneità: Giulia ha creato un disegno sulla base di ciò che il racconto le ha evocato.  


La chiamano wanderlust: la “sindrome” di chi non può stare senza viaggiare. Le persone vacanziere, in modo semplicistico, usano questo termine per descrivere la propria passione nel trascorrere le ferie lontano da casa.
Funziona così la nostra società: ad ogni concetto si attribuisce un nome, un’etichetta; si ricerca un filo conduttore che colleghi tra loro un gruppo di persone, al fine di creare una categoria, che finisce, immancabilmente, per essere main stream.
Mi chiamo Abigail, e non apprezzo questa definizione semplicistica. Non mi ritengo una persona polemica, sono solo molto affezionata a qualsiasi cosa sia in grado di toccare tasti profondi dentro la mia anima, e per me, wanderlust è stato un percorso di vita. 
Questa parola è ormai diventata un brand: la si legge a scopi pubblicitari nelle vetrine delle agenzie di viaggio, la si scorge nelle riviste e nel mondo dei social. Il concetto è stato ridimensionato, fino a rendere ordinario l’eccezionale, e sottrarre un poco di quell’intimità che chi viaggia alla scoperta di desideri ignoti prova quando programma l’atterraggio successivo.

Parecchi anni fa, ero una bambina molto curiosa. Ricordo ancora molto bene di aver scorto quella parola per la prima volta quando avevo appena imparato a leggere: «Mamma, cosa significa wa… wandre… wander… lust?».
Mia madre ed io eravamo sedute nella sala d’aspetto dello studio dentistico, e, in attesa della visita, avevamo casualmente iniziato a sfogliare una rivista. Mentre mamma girava rapidamente le pagine, ero stata attratta da quelle poche sillabe riportate in una pagina colorata, piena di persone sorridenti con in mano valige e borsoni.
«Credo di aver letto questa parola navigando su internet», mi aveva detto, «se non sbaglio, con wanderlust si indica la malattia del viaggiatore», e intanto continuava a sfogliare il giornale distrattamente.
«Oh. Fa male alla salute viaggiare?» avevo chiesto con gli occhi pieni di curiosità.
In risposta mamma aveva iniziato a ridere particolarmente divertita, e posando il giornaletto aveva aggiunto: «Certo che no, bambina mia, è un modo di dire: le persone a cui piace tanto tanto viaggiare lo farebbero sempre. Non appena rincasano da una vacanza, prenotano subito la successiva: si comportano come se fossero dipendenti dal girovagare per il mondo. Per questo, qualcuno ha inventato la parola wanderlust. A me più che altro pare un modo per prendere in giro le persone che sprecano i loro stipendi con queste assurdità».
Nonostante la spiegazione, non avevo capito assolutamente cosa significasse wanderlust. Nella mia testa, infatti, si era generato un curioso gioco di pensieri. La parola “malattia” era stata la causa scatenante: avevo immaginato passeggeri con fratture, con la testa fasciata, il raffreddore o la febbre alta. Non avevo fatto in tempo ad approfondire, perché la dentista aveva aperto la porta dello studio, invitandoci ad entrare, ed una volta finita la visita, la piccola me stessa aveva dimenticato la breve conversazione.
Ciononostante la parola wanderlust, da quel giorno, rimase impressa inconsciamente nei meandri della mia mente. Per un buon motivo, avrebbe commentato il fato, dato che non appena ne ebbi l’occasione, presi il primo aereo in solitudine.

Ricordo bene anche quell’evento.
Era una mattina fresca e soleggiata: l’alba di un’estate che preannunciava di essere torrida. Non ero ancora maggiorenne, e i miei genitori mi avevano accompagnata in aeroporto, da dove stavo per volare fino alla bella Siviglia, nella sconosciuta Spagna.
«Abigail, tesoro, hai fatto programmi per questa settimana di vacanza?» aveva esordito mia madre in auto, risvegliandomi da un nebuloso torpore.
«Nessun programma al momento, ma lo faremo. Maria vive a Siviglia da mesi, conosce il posto», avevo detto distrattamente.
«Vai all’estero senza programmare alcunché? Non sai neanche la lingua, speriamo tu non ti perda all’aeroporto!» a mio padre era sempre piaciuto schernirmi – in modo affettuoso –. Io non avevo dato peso a quelle parole: non riuscivo a guardare oltre il semplice gesto di poter, per la prima volta, volare via.
Più tardi, mentre l’aereo stava per alzarsi verso il cielo, avevo capito: la mia prima vacanza senza famiglia, non era altro che l’inizio del mio wanderlust.

Da quel momento ogni giorno vissuto e ogni anno trascorso, hanno incrementato il mio irrefrenabile desiderio di esplorare, di andare oltre al mondo conosciuto e affrontare sfide impreviste, di scovare posti nuovi, culture, cibi.
Ogni volta che si è presentata l’occasione, ho assecondato il mio bisogno: ho scoperto città costiere e città montane, metropoli e piccoli borghi storici, luoghi moderni e affollati intrisi delle memorie della storia e di chi, prima di me, ha camminato su quelle strade.
Con il tempo ho creato le due versioni di Abigal che esistono oggi: ci sono cose che dico ed altre che mi limito a pensare.
Ciò che dico di amare di più del viaggio, è la possibilità di osservare ogni cosa ed ogni persona, così da sentirmi proiettata alla ricerca di nuove prospettive, nuovi orizzonti: grazie a stimoli diversi da quelli ordinari e possibilità sconosciute, accolgo realtà parallele che non avevo mai considerato prima, semplicemente perché non sapevo della loro esistenza.
Ciò che non dico, è quanto di più profondo io percepisca, perché evoca le emozioni che alloggiano rannicchiate, quasi nascoste, all’ombra delle mie parole: viaggiare per fuggire.
La mia vita, come quella di chiunque altro, è stata costellata da momenti diversi: positivi o negativi, apprezzabili, difficili o stressanti. La immagino schematizzata su un grafico cartesiano: una curva fatta di alti e bassi, picchi e valli. Quando la mia personale curva si avvicina ad un minimo, prenoto un aereo.
Bastano solo pochi giorni in un posto nuovo: agiscono da cura, medicina per la mia insoddisfazione, per la tristezza e la malinconia. Alla costante ricerca dell’eccezionalità che da adolescente invidiavo alle eroine dei romanzi fantasy, non voglio arrendermi ad una vita scandita da ritmi scontati, bensì vivere l’avventura nell’ordinaria eccezione alla routine.
Quando rincaso dopo un viaggio, provo la stessa sensazione che nella mia immaginazione dovrebbe percepire un’automobile dopo il pieno.
O almeno così è stato, fino a pochissimo tempo fa.
All’improvviso, senza avvertimenti, insieme ai doveri e alle responsabilità, sono arrivate consapevolezze nuove: mi sono resa conto che le piccole fughe degli anni passati mi hanno riempita, ma soprattutto illusa. Ho scoperto che fuggire ricarica le mie difese soltanto se, prima della partenza, sono già consapevole di quali siano i miei piccoli nemici. La fuga diventa invece inutile, se a tormentarmi sono i demoni dell’anima che non riesco ad individuare.
Ho colto così una piccola ombra in wanderlust, qualcosa che non riesco a capire fino in fondo, una domanda che nella mia testa risuona sempre più insistentemente: «Dove fuggi, quando ciò da cui fuggi sei te stesso?»
Eccomi: per la prima volta, temo di non poter affrontare un minimo della vita con un viaggio. Ho sempre tenuto le redini della mia esistenza saldamente tra le dita, senza cedimenti o debolezze, per questo adesso ho paura: in me è nato lo sconforto, ho perso la lucidità. Eppure al contempo, ho trovato un nuovo coraggio: quello del cambiamento.
Non posso comportarmi come di consueto, non posso volare via: devo provare a navigare, fare rotta verso gli angoli più reconditi del mare che alberga dentro di me.
Quell’azzurro che ho sempre finto di non conoscere, dicendo a chiunque «A me non piace il mare».
In fondo lo so: se ciò che cerco non sono riuscita a trovarlo in quanto vissuto fino ad ora, non mi resta altra scelta se non intraprendere una rotta che non ho mai intrapreso prima.

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Collaborazione Biró

THE Grace OF FORGIVENESS

Consideriamo due oggetti: un paio di scarpe ed una vasca da bagno. Sarete con me nel dire che hanno ben poco in comune! Cosa fareste se questi fossero due elementi da combinare per scrivere una storia?
The Grace of forgiveness è nato proprio così, ed il titolo è un preciso e voluto gioco di parole: letteralmente in italiano significa “la grazia del perdono”, ma “Grace” è anche un nome proprio. 
Curiosi di capire cosa voglia trasmettere questo titolo, e perché parliamo di perdono insieme ad un paio di scarpe ed una vasca da bagno?

Non vi resta niente da fare, se non leggere il racconto che trovate al seguente link

The Grace of forgiveness

Così come “La Luna di Percival” questo scritto è nato dalla mia collaborazione con Biró, buona lettura!

P.S. Ringrazio di nuovo le abili mani di Paola Gentile per aver creato l’illustrazione di copertina.

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Attimi

Osservare

È un’estate tiepida e piacevole, accompagnata da un sole che brucia nel cielo senza troppe pretese. Probabilmente quest’anno anche lui si è impigrito: imbroglia l’obbligo di levarsi ogni mattina lasciando spazio alla pioggia almeno una volta ogni due giorni.
E tu, come spesso accade, sei là seduta tra gli scogli, camuffata dalla giornata poco luminosa.
Hai indosso una gonna color sangue lunga fino ai piedi; si è inzuppata di mare sporco, ma non ci badi, perchè il tuo sguardo è perso verso l’orizzonte: indugia sui colori del cielo mentre ringrazi la sacralità di quel luogo, che riesce a nasconderti da qualsiasi occhio rischi di osservarti.
Non ti piace essere osservata, sei piuttosto un’abile osservatrice.
Gli sguardi degli altri, anche se sfuggenti, ti hanno sempre dato fastidio. Ti gettano addosso una sensazione di pressione così fastidiosa… lo so bene, solo tu sai descriverla così come la percepisci.
Per questo quando scherzando tra amici ti viene chiesto: «Se tu potessi avere un superpotere quale sarebbe?» rispondi sempre senza troppi dubbi: «L’invisibilità».
Ma certo, non è ovvio? Soltanto quella dote risulta desiderabile, utile.
Vuoi mettere leggere la mente? Un supplizio.
O vivere per sempre? La peggiore delle condanne.
Volare? Forse questo può essere interessante, ma mai, mai utile quanto essere osservatrice senza venir osservata;
muoversi per le strade senza essere scorta;
essere, senza esser giudicata.
Essere te in mezzo agli scogli, nella tua cara solitudine: senza equivoci, senza abbagli, senza fraintendimenti.

Adesso perdonerai la presunzione di quanto sto per dire: io sono un’eccezione.
Non mi limito ad osservarti: riesco a guardare i tuoi occhi. Addirittura intravedo le smorfie che si susseguono sul tuo volto mentre miri il mare: appari velata da una mite tristezza. Sotto la tua pelle scorre una sottile ma persistente malinconia, che affiora fugace anche quando sorridi, ridi, gioisci.
So che sei brava a gioire, non mi sfuggi: ti ho vista rallegrarti per l’inaspettato, per la magnificenza della natura. Ti ho vista quando hai amato, quando hai donato la felicità, quando hai mangiato il gelato ad inizio primavera, o la prima volta che hai avvicinato le labbra ad un microfono.
Da anni ti osservo dalla mia posizione privilegiata, anche se tu non lo sai. Attendo con pazienza il giorno in cui riuscirò ad inquadrarti, perché mai, in un’intera vita, sono riuscita a farlo.
Chi sei? Ho visto cambiare i paesaggi e te con loro: sei stata in montagna, al mare, al fiume, tra i laghi, sotto alle cascate; hai abbracciato praterie sconfinate, le città, le metropoli, il bosco. Hai indossato vestiti diversi, dipinto i tuoi capelli con l’arcobaleno, ed i tuoi occhi con diamanti scintillanti. Ma niente è durato tranne quella sottile, costante, impercettibile malinconia.
Oggi in riva al mare non riesco ad osservare la tua felicità.
Oh, giovane fanciulla con i capelli scompigliati dal vento e gli occhi rivolti verso il cielo, cosa vuoi di più degli occhi per vedere? Delle orecchie per sentire? Delle mani per toccare? Della labbra per baciare?
Se solo sapessi,
se solo potessi,
placherei il tuo tormento, lo giuro con la mia anima tra le dita, lo placherei.
Parlami, smetti di fingere, so che riesci ad udirmi.
Dimmi: quale volto, tra i nostri, è reale?
Ma tu taci. Osservi le onde, con loro ti agiti… e taci.
Taci come adesso che sei in riva al mare a guardare l’orizzonte, con lo sguardo presente ma allo stesso tempo assente, di chi ancora non ha capito come si smette di osservare sé stessi vivere.

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novellequotidiane

Ti racconto cosa direi alla persona che ero 10 anni fa

Partecipo in ritardo (ma con molto piacere) a #NovelleQuotidiane29 : ecco un altro minuscolo racconto.


Duemiladieci. Hai sedici anni Alice, nella tua testa già frullano tutti quei pensieri da grande, e tu non sai di essere ancora una bambina. Tutti quei sogni e le mille fantasie per te non sono qualcosa da infante: sei semplicemente te stessa – almeno fino a quando qualcuno non ti farà sentire sciocca per questo –.
Sei orgogliosa e testarda e pur non sapendo dove alberghi il tuo valore morale, ti batti per difendere uno strano concetto di femminilità e femminismo che senti appartenerti; con un pizzico di arroganza sdegni quella tua profonda sensibilità: la rifiuti additandola come la tua più grande debolezza.
Non accetti di sbagliare, non vuoi aver torto: per te gli errori sono giudizi sulla tua personalità, non sul singolo evento.
Quanti errori hai commesso, Alice, credendo che la vita debba essere affrontata con orgoglio e rabbia, senza emozioni dolci e pulite, senza permetterti di essere debole agli occhi degli altri.
Perché per te il punto fondamentale è questo: apparire forte, intangibile.
Ed è proprio per questo che il tuo essere accusa i colpi: la tua essenza, inconsapevolmente, sta iniziando a cedere.  La tua anima verrà ferita, la tua mente cadrà preda di obblighi nati dalla forza della psicologia inversa.
Oh giovane Alice, se tu solo sapessi quanto è puro e semplice essere solo sé stessi, anche con la tua fragile sensibilità.  Con gli anni scoprirai proprio in essa la tua più grande forza: affiancherà quella innata curiosità custodita in te e l’orgoglio, creando l’ambizione.   
Potrei darti mille consigli, elencare cento situazioni che dovresti  affrontare diversamente, così da semplificarti la strada verso l’età adulta. Ma ti conosco troppo bene, so che dall’alto dei tuoi sedici anni non accetteresti alcun consiglio, e forse è giusto così.
Ti comprendo sai: la testardaggine la conserverai oltre i vent’anni. Quali siano le esperienze che affronterai ti porteranno ad essere chi sei: puoi scegliere di prendere il buono anche da ciò che ti causerà dolore. Ti prego, non scordarlo mai.

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Collaborazione Biró

La Luna di Percival

Quest’oggi, con tantissimo entusiasmo, mi appresto a comunicarvi che un mio nuovo racconto è online.
«Dove – chiederete voi – dato che qui non c’è niente?»
Semplicissimo! Lo trovate al link che vi lascio qui sotto ⇓

La luna di Percival – Biró

Poco più di un mese fa, grazie ad instgram, ho trovato il sito Biró (precedentemente Finestre di Zucchero) ed ho partecipato ad un loro contest di scrittura, che non ho vinto. Poco male: perché ho avuto molto di più. Mi hanno chiesto di scrivere un racconto a tema libero, cosa che non mi aspettavo per niente.
«Addio – mi sono detta – tema libero… non combinerò mai nulla!» ed invece mi sono impegnata, ho provato a viaggiare con la fantasia ed è nato questo racconto molto dolce, delicato, ma non per questo privo di un profondo significato.
L’immagine di copertina è stata creata appositamente per il racconto dalle abili mani di Paola, su instagram come @gentile_paola_87, con il bellissimo stile del sito Finestre di Zucchero, che vi invito a visitare nella sua interezza!

Non mi resta che sperare di potervi fare compagnia ancora per qualche minuto e augurarvi buona lettura!

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Ti racconto dove trovo la mia libertà

Introduzione

Oggi ho deciso di aggregarmi nuovamente all’iniziativa instagram #NovelleQutidiane. Giunti al diciottesimo giorno dell’iniziativa, ho cercato di contrarre al massimo i miei pensieri il merito a “dove trovo la mia libertà”, per ottenere un minuscolo spunto. In realtà potrei riempire pagine e pagine di pensieri in merito, chi sa, magari un giorno lo farò!
Visto che questa volta mi sono ritrovata a scrivere senza averci pensato troppo su, sono andata in cerca di aiuto per la compagnia visiva al mio scritto: la mia cara amica (artista, psicologa e modella) Giulia Trio ha improvvisato questa illustrazione. 


Racconto 

Un uccellino. Un pettirosso. Adoro i pettirossi: sono così piccoli, colorati ed impossibili da acchiappare. Ogni tanto tra un saltello ed un altro, mentre sono in cerca di briciole, gonfiano il petto, poi volano via chi sa in quale direzione. Liberi di scegliere da quale vento farsi trasportare.
Forse per un uccellino tanto basta per definire il concetto di libertà.
Loro non hanno regole scritte, un codice etico, una morale da cui trarre senso di colpa.
Per gli uomini è diverso. Se ci limitassimo a pensarci liberi nel momento in cui possiamo decidere quale strada percorrere, non incorreremo forse in un errore di valutazione?
Forse sottovalutiamo il concetto di libertà, lo riduciamo a qualcosa di esterno da noi. Sono convinta che se lo chiedeste in giro, il commento sarebbe unanime: “amo le mie libertà, non sopporto di sentirmi in gabbia, nessuno può decidere per me, nessuno può incatenarmi”.
Come da vocabolario: libertà è disporre della propria persona senza coercizioni fisiche o materiali.
Ciò è lecito e reale, ma non possiamo rischiare di dimenticare anche l’altra faccia di questa medaglia.
Io ammiro l’uccellino, ma alla sua emancipazione aggiungo: libertà è tale, quando nell’assenza di impedimenti materiali, si può decidere di appropriarsi di qualsiasi sfaccettatura ci componga come essere umani, slegandoci dal timore di non rispettare dei canoni, senza il turbamento creato dall’aspettativa, o più semplicemente, senza la paura di non piacere agli altri.
Sii libero: vieni a patti con le scelte fatte e con quelle che farai, all’interno di ciò che è lecito, puoi andare oltre ai concetti di giusto e sbagliato che hai imparato fino ad ora.
Quando ero adolescente, per tanti anni sono stata convinta che fossero gli altri a privarmi della mia libertà.
Il tempo mi ha insegnato che l’unica gabbia dorata che mi imprigionava era quella della mia mente.
Così ho scoperto la chiave: semplicemente volendo, potevo diventare come quel pettirosso, accettare di essere me stessa senza mezzi termini, senza paure, senza bisogno di giustificazioni.

Un giorno ho trovato le mie ali: una penna ed un foglio bianco.
La scrittura… la mia libertà.

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Imparare a volare

4. Hic et Nunc

Introduzione

Hic et Nunc è nato nel 2016 dopo almeno un paio di mesi di lavoro. Scrivevo al tavolo di sala, nella casa a Pisa che condividevo con tre coinquiline al tempo dell’università.
Non sono mai stata molto brava a vivere l’attimo. Da adolescente ero letteralmente ossessionata da questo concetto. Mi dissi che se avessi scritto di un certo tipo di atteggiamento sarei forse riuscita ad assumerlo anche nella vita di tutti i giorni: volli quindi sforzarmi di raccontare con un certo modo di pensare. Direi di essere davvero migliorata negli anni. 

Ci tengo a dire che questa volta, per quanto riguarda l’immagine di accompagnamento al testo, ci siamo proprio superati grazie alla bravura e alla gentilezza del fotografo William Perugini, vi lascio di seguito i suoi profili social.
Facebook: William Perugini Potographer
Instagram:@williamperugini


Racconto

Stava sfogliando, rigirandoselo tra le mani, un piccolo quaderno vecchio e sgualcito. La prima pagina indossava un appunto scolorito, che recitava:

“Il cielo è azzurro come non lo si vede da tempo ed il sole è caldo. Oggi è una di quelle giornate che mi ricorda come l’inverno non possa durare per sempre, anche se nel momento in cui l’abbraccio dal freddo si chiude su di te, dimentichi di quanto possa essere bella la primavera.
Giornate come questa sono fatte per asciugare le pozzanghere piene di fango, per lasciar fiorire i peschi; sono la speranza dei fiori, la garanzia che un nuovo giorno può portare qualcosa di nuovo e fresco anche se, solo a pochi metri di distanza, decine di alberi hanno ancora i rami secchi.
E negli occhi delle persone si legge la stessa speranza dei fiori. Occhi grandi o piccoli, luminosi o spenti: ognuno porta una luce diversa in sé, una luce che parla meglio di qualsiasi bocca.
L’inverno non può durare per sempre, anche quando marzo si nasconderà dietro le nuvole, sono sicura che ci saranno altre giornate come questa.
Anche se l’inverno appena trascorso è stato molto più lungo di qualche mese, e ricoperto da una fredda lastra di ghiaccio, adesso so che non potevo arrendermi al gelo.
Ho sempre combattuto contro la vita, adesso è il momento di iniziare a combattere per la vita. Per i giorni di primavera. Per eliminare la lastra di ghiaccio”.

C’era una ragazza. Se ne stava seduta ad osservare le persone che passeggiavano lungo il Tamigi illuminato, raggomitolata su una panchina come un gatto soriano troppo stanco per inseguire le lucertole.
Tra le mani teneva un bicchiere di carta. Lo portava quasi fosse un mazzo di fiori che però, al posto dei petali, aveva del caffè americano fumante. Pochi minuti prima la tasca interna di quella borsa che da così tanti anni non usava le aveva riservato una sorpresa: il quaderno che un tempo accoglieva le sue confidenze e le sue riflessioni.
Aveva sorriso nel leggere quanto riportato in quella pagina, ricordando benissimo il giorno in cui aveva reso le sue riflessioni indelebili: era una primavera di alcuni anni prima, un periodo della sua vita in cui aveva iniziato a chiedersi cosa volesse dire crescere e affrontare la vita. Giorni in cui il suo cuore aveva subito delle perdite grandi, accompagnate da piccole ferite, anche se al tempo sembravano tanto impossibili da sanare.
Quelli erano i giorni in cui per la prima volta aveva deciso che avrebbe imparato ad aprire il suo cuore, a dimostrare l’affetto e a smettere di nascondersi dietro ai muri che aveva così faticosamente costruito.

Con quei ricordi le sue labbra si incurvarono ancora di più ed il sorriso raggiunse gli occhi.
Alzò lo sguardo dal quaderno per osservare intorno a lei. La strada era affollata come non mai, la palla infuocata lassù nel cielo aveva richiamato tutti: uomini, donne, bambini, ragazzi. Un turbinio di colori e di etnie. Sembrava di assistere ad una sfilata organizzata da un folle tanto erano variopinte le anime che passeggiavano lungo il Tamigi.
La vera attrazione per lei non erano tanto i vestiti od i capelli colorati dei rockettari, ma gli sguardi. Ogni singolo che muoveva i suoi passi davanti alla ragazza, aveva nelle iridi uno scintillio diverso, unico nel suo genere. Si ritrovò rapita dal notare che non tutti i bambini avevano occhi felici, non tutte le coppie si scambiavano gli stessi raggi di affetto, e che qualche solitario, come lei sorrideva perso ad osservare il sole.

Fu forse quel ricordo ritrovato sul quaderno, oppure il chiedersi quante storie potessero raccontare le persone che le camminavano davanti, o magari l’atmosfera nella sua interezza: iniziò a riflettere su dove si trovava, ma non fisicamente. «Guarda, Alice – si disse – guarda quanti passi hai già mosso nella vita adulta, quanto sei stata brava nel fare tesoro di tutte le tue esperienze».
Sfide da affrontare, traguardi da raggiungere, segni indelebili dentro di lei lasciati da episodi vissuti.
Tante battaglie era fiera di poter dire di averle vinte da sola, mentre per tante altre era stata indispensabile la presenza di persone accanto.
Ricordava il nero della rabbia, il bianco della disperazione, l’indefinito colore del dispiacere.
Ricordava l’arcobaleno di quando aveva offerto il suo cuore per la prima volta, ma ricordava anche la cecità scaturita quando quello, invece di essere accudito, le era stato strappato di mano con forza, usato come uno stupido gioco e poi calpestato.
Ricordava di come questo si fosse irrigidito, indurito come un sasso per poi sgretolarsi come creta troppo secca.
Ricordava di aver letto, chi sa dove e chi sa quando, di come le emozioni combattono nella testa delle persone per decretare cosa sia giusto e dignitoso, cosa sbagliato.
Nel vorticoso miscuglio di immagini che si susseguirono nella sua testa, nessuna di esse le richiamò emozioni sufficientemente forti da accendere la sua attenzione, tranne una leggera consapevolezza. Ad essa era legato anche quel sorriso che si era acceso sul suo volto: nessuna delle persone che l’avevano ferita era mai stata la sua prima scelta, e ciò adesso, aveva dannatamente senso.
Quali fossero state le gioie e i dolori, le piccole e grandi esperienze vissute fino a quel momento, era stata condotta a raccogliere i pezzi del suo cuore, che rovinati o meno, adesso sentiva essere al loro posto. Il prima aveva ormai tutta un’altra importanza. Le sensazioni di malinconia e le domande su come avrebbe dovuto comportarsi per tagliare fuori il rischio di soffrire di nuovo non l’attanagliavano più. Non si chiedeva cosa le riservasse il domani.
Era troppo presa dal vivere l’oggi.

Il qui.

L’adesso.

La strada che aveva percorso le aveva regalato la compagnia di due occhi che conosceva da molto tempo, ma che aveva sempre osservato da lontano cercando di accudirli con premura, senza impulso, affascinata dalla loro bellezza. Gli occhi di quella persona che in quel momento le camminava a fianco, tenendola per mano.

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Io ti vedo

La musica era particolare. Ritmica, estremamente ritmica. A tratti ricordava un fruscio, in altri momenti l’abbattersi di una frusta sul bersaglio – il mare –. In sottofondo, poi, vi era una melodia costante, sottile e tagliente – il vento – accompagnata da un tamburellare insistente e sottile, come di microscopiche bacchette su una gigantesca batteria – la pioggia –.

La giovane aveva gli occhi serrati mentre si beava del concerto dal suo timido riparo sulla spiaggia. Era notte fonda, e l’immaginazione aveva un posto da privilegiata: era in prima fila per quello spettacolo, per questo gli occhi non le erano utili.
Vagava. Da un’immagine ad un’altra. Da un avvenimento felice ad un timore. Da un ricordo ad un desiderio.
Qualcuno scostò la tenda che copriva l’ingresso della capanna di canniccio.

<<Cosa fai qui sotto l’acqua?>> le disse.

<<Non sono sotto l’acqua, come puoi ben vedere sono riparata>> rispose lei senza muoversi di un millimetro e senza aprire gli occhi.

<<Ok… cosa fai qua fuori, dentro un’umida capanna improvvisata? Potresti tranquillamente raggiungerci nel bungalow>>.

<<Shhh..>> fece lei, aggrottando le sopracciglia infastidita.

<<Andiamo Alice, falla finita>> commentò lui laconico.

Finalmente Alice aprì gli occhi, e sbuffando si tirò su a sedere <<Ottimo Adam,  sei riuscito a rompere la mia quiete, grazie. Prenditi due minuti e prova anche tu a stare zitto e ad ascoltare il mare e il suono della natura invece di dirmi per la centesima volta che devo entrare dentro con gli altri. Non ho voglia>>.

<<Sei sempre arrabbiata per oggi>> disse lui entrando e sedendosi accanto a lei. Non era una domanda o un’accusa, ma una semplice constatazione. <<A parte quell’evento, ti sei divertita almeno un po’?>>.

Alice lo guardò <<Che fai adesso, mi compatisci?>>

<<Non ci penso nemmeno. Non voglio mica essere preso a calci>> le rispose azzardando un sorriso, che per fortuna ebbe l’effetto desiderato di distenderla.

<<Suppongo di si, di essermi divertita nonostante il mal di testa e il caldo asfissiante. E’ stato carino lanciarsi in mezzo al mare con le maschere e gli amici. Se poi non fossi quasi affogata mi sarei divertita anche di più – disse con sarcasmo –  e sono consapevole di essere arrabbiata per il niente dal tuo punto di vista>>.

<<Mi credi così poco intelligente?>>

<<No, assolutamente. Semplicemente molto spesso io stessa faccio fatica a comprendermi, non ho la pretesa che tu ci riesca prima di me>>.

<<Perché non provi semplicemente a dirmi cosa stai pensando? Potrei sorprenderti. Intanto ho capito che sei arrabbiata, e non con noi>>.

*

Quel pomeriggio era stato quasi perfetto. Il sole era caldo e alto, il cielo azzurro e il mare calmo e pulitissimo. Mentre Alice, Adam e gli altri quattro amici stavano facendo snorkeling, la ragazza si era ritrovata improvvisamente nell’acqua alta circondata da banchi di alghe nere. Un istante, breve e fatale, le fu sufficiente a rendersi conto che tutti gli erano parecchio distanti da lei. Il panico la assalì senza neanche chiedere il permesso.
Il mare le piaceva, ma non si fidava.
Sapeva nuotare, ma all’improvviso si era ritrovata senza fiato e senza forze.
Nonostante ciò non le venne subito in mente di richiamare l’attenzione di Abigail, che tra tutti era la più vicina. Perse piuttosto pochi secondi a chiedersi se fosse o meno il caso di disturbare il prossimo perché una paura insensata la stava facendo smettere di respirare (si, in mezzo al mare, non esattamente un posto ideale). Nel frattempo Abigail si stava allontanando, mentre Adam aveva notato da solo il problema. Così, quando Alice si decise ad urlare e cercare di nuotare verso riva, lui l’aveva già raggiunta, e prendendola per la vita nuotò con lei fino alla spiaggia, dove la prima cosa che Alice disse fu “tutti, tutti sapete che ho un rapporto amore odio con il mare e che mi spavento subito, nonostante questo mi avete lasciato sola in mezzo ad un banco di alghe”.
Se ne pentì subito.
La pervase il senso di colpa per aver accusato qualcun altro di quella che era semplicemente una sua debolezza. Sensazione che si aggravò quando in poco tempo tutti gli amici la circondarono sulla sabbia chiedendole se stava bene. Le dava immensamente fastidio tutta quell’apprensione e quell’inutile preoccupazione. Stava rovinando la giornata a tutti.
Nella sua testa due parti combattevano tra loro: una si chiedeva se non fosse semplice e umano accettare di essere accudita senza sentirsi inadatta o piagnucolona, l’altra era arrabbiata con la situazione e con se’ stessa per aver messo su quel maledetto teatrino.
Esternamente si limitò a spostare l’attenzione su altre cose, e quando Adam si mostrò preoccupato perché aveva capito che la ragazza aveva quasi avuto un attacco di panico, Alice lo fece passare come esageratamente apprensivo.

*

Adam ci aveva visto giusto. Alice era arrabbiata, si, ma con chi?

<<Hai ragione. Non sono arrabbiata con voi per avermi lasciato da sola. Sono arrabbiata con me stessa per non essere stata abbastanza coraggiosa e per aver anche solo pensato che dovevate avere un occhio di riguardo. E poi… è incredibile.
Sono preda di pensieri che mi rimbalzano in testa. Mi sento alla mercé di un filo logico ma anche illogico di immagini e idee che mi trascinano in modo continuo, e che non mi consentono di vivere in modo sereno anche una bella giornata tra gli amici come questa. Sono spettatore e giudice di quello che mi succede intorno, come se non fossi veramente io a vivere la mia vita ma fossi qua a guardarmi scegliere la prossima azione da compiere per essere una persona normale. Ha senso?>> disse Alice sospirando.

<<Tutto questo ti è scaturito da oggi?>>

<<Si… e no. Non lo so, sono sempre un po’ così. Alcuni giorni di più, altri meno. Oggi sicuramente sono stata infastidita da me stessa. Anche ora mi do fastidio. Per questo sono venuta qua fuori ad ascoltare il mare. Non voglio dare fastidio anche a voi>>.

<<Alice, siamo amici. Non ci dai fastidio perché hai quasi avuto un attacco di panico, è normale preoccuparsi se un’amica non sta bene. Perché è così difficile per te capire che è un riflesso spontaneo, umano, che non siamo stizziti per questo?>> chiese Adam avvicinandosi per riuscire a vederla meglio in viso nella penombra. Lei guardava il vuoto.

<<Non so darti una risposta. Sono le sensazioni che parlano per me. E’ come se non riuscissi a percepire questa normalità di cui parli>> ed era vero: non a livello consapevole, non avrebbe saputo spiegarlo. Era una vibrazione sotto la pelle, nelle viscere. Un malessere.

<<Devi smetterla di pensare di non meritarti l’affetto delle persone>> disse all’improvviso Adam con tono fermo e consapevole, ma gentile.

Alice ebbe un sussulto. Era stato estremamente diretto, con quella frase aveva sorpassato una linea di confine, azzardando un commento su qualcosa di estremamente intimo: aveva letto sotto la pelle di lei e aveva capito quelle sensazioni che le parlavano senza palesarsi, aveva dato loro un nome anticipando cose che lei ancora faticava a capire. Sentì calore nel petto, qualcosa di bello. Una consapevolezza?

<<Io… non so cosa risponderti>> si limitò a sussurrare Alice.

<<Non importa, io ho capito>>.

Fuori, intanto aveva smesso di piovere. Dalla tenda sottile si iniziava ad intravedere la luna fare capolino tra le nuvole e le prime stelle.
Adam si alzò e prese Alice per mano, costringendola a seguirlo fuori.

<<Che fai?>> disse lei intorpidita, quasi come se quel gesto l’avesse risvegliata dalla tempesta emotiva che era scoppiata pochi minuti prima <<Che giorno è oggi?>> le rispose lui.

<<E’ il… 27 luglio, ma che c’entra?>>

<<Caldo a sufficienza per fare il bagno con la luna non trovi? – disse con un sorriso più luminoso delle stelle – non fare quella faccia sconcertata scema, andiamo>>.

<<Non so se sono in vena di far fest…>> non riuscì a finire la frase perché lui la interruppe accarezzandole una guancia. Un istante. E poi si buttò in mare.
Alice rimase qualche secondo immobile. Era davvero così? Era arrabbiata con sé stessa perché non riusciva ad accettare il bene che veniva dagli altri? Era così tanto concentrata nel lieve disprezzo che aveva per sé stessa da pensare che questo le fosse rivolto anche dagli altri?
Si tolse la maglia e avvicinò l’asciugamano a riva.
E Adam aveva capito tutto? Quello che le frullava nella testa? La conosceva davvero così bene?
Ormai era rimasta in costume e aveva i piedi nell’acqua.

<<E dai buttati>> disse Adam qualche metro più in là riemergendo da sotto una piccola onda.

“Se mi butto, voglio che quest’acqua lavi via tutto, almeno per un’ora. Voglio essere io com’ero prima di diventare preda di me stessa”

Con questa frase in testa si tirò nell’acqua. Era fresca pur essendo notte, probabilmente perché aveva appena piovuto.

<<Brava! Visto che non era difficile>>

<<Non lo era>> disse sorridendo e nuotando verso di lui, mentre i capelli lunghi le si inzuppavano di acqua e sale.

<<Hai visto che spettacolo la luna piena? Una notte così bella non poteva essere sprecata. Hai fatto bene a non rientrare. Sei stata più lungimirante di tutti noi>>.

Alice storse la bocca <<Beh, in realtà non sono rientrata perché…>> <<Lo so Alice – la interruppe con un buffetto sul braccio – ma guarda com’è andata a finire poi, no?>>.

Si girò verso di lui. I suoi occhi ridevano ancora di più della sua bocca, erano luminosi e caldi, le dicevano qualcosa di diverso sotto pelle, le dicevano che aveva ragione lui, che poteva accettare il bene che veniva dagli altri.

<<Adam… – l’onda successiva la portò diretta a pochi centimetri da lui, che l’abbracciò – grazie>>.

<<Gli amici servono anche a questo, no?>> le rispose, un istante prima di baciarla.


  1. Salve, ho potuto piacevolmente notare che anche a lei piace scrivere, anche io ho un sito wordpress sul quale faccio…

  2. Allora sono onorato di avertelo fatto scoprire: è un capolavoro. Colgo l’occasione per dirti che mi sono appena iscritto al…