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Imparare a volare

8. Linee Sottili

introduzione

Ho messo mano a questo racconto dopo tre anni dalla sua stesura. Sono stata tentata di renderlo attuale modificando la sintassi in modo da avvicinarlo a come scrivo ora. In parte l’ho fatto, ma non del tutto: ho deciso di trattenermi perché sconvolgendo la forma avrei rischiato di sconvolgere indirettamente anche il contenuto.
Questo racconto è diretto, disperato, stanco: così voglio che rimanga. 
“Linee Sottili” nasce nel 2017, è stato scritto in ordine cronologico dopo “Tempo Tiranno” e lì è rimasto all’interno della raccolta. 

Chiunque tu sia, se adesso ti trovi nello stesso posto dove Alice si trovava in quei giorni, non sei solo.


C’è una linea incredibilmente sottile tra l’essere solitari e l’essere soli, così come c’è una linea incredibilmente sottile tra il sentirsi soli e il credersi solitari.
Le linee sottili che si incontrano nel corso della vita sono tante e variopinte. Esiste forse una distinzione netta tra il bene e il male? O tra la gioia e il dolore? Tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato? Tra resilienza e sopportazione?
No, una differenza spiccata non esiste.

Ma tu ed io, chi siamo?

Esseri umani, custodi di tesi e antitesi immersi in una furiosa ricerca della nostra identità.
Nel barcamenarci tra le luci e le ombre della vita, dimentichiamo.
Dimentichiamo le linee sottili, dimentichiamo la nostra natura dinamica, sempre in movimento, a favore del desiderio di essere statici. Come piante.

Insoddisfatti.
Non è ovvio?

Abbracciamo l’insoddisfazione di cui ci lamentiamo.
Mutiamo le nostre opinioni solo per scoprirci scocciati dal cambiamento; ricerchiamo l’abitudine ed osserviamo il mondo come se fosse intriso di immobilità, questa è l’unica grande certezza.
Persone, luoghi, attimi, sospiri, conversazioni: di essi creiamo figure, dipinti e fotografie, così da catturare l’eterno in un infinitesimo.
Ci pensiamo vittoriosi quando cadiamo nell’illusione di controllare una realtà dinamica.

Non risulta ovvio, adesso, il motivo dell’insoddisfazione?

Con arroganza ci riteniamo capaci dell’impossibile.
Quale pretesa quella di conoscere – capire – ogni smorfia che passa sul volto di chi abbiamo di fronte, quando è in realtà solo una prima superficiale impressione.
E lasciatemelo pensare: quel primo sguardo non basta certo a capire cosa celino gli occhi nella loro profondità.
Ma ho perso il mio concetto di apertura: le linee sottili.
Da ragazza sognavo una vita idilliaca: ognuno supereroe di sé stesso, non immune alle difficoltà, ma sempre capace di portarsi a galla autonomamente. L’essere una persona solitaria, in questa utopica visione, è la condizione ideale per salvarsi da soli, con le proprie forze, di fronte a qualsiasi pericolo. Scontato il fatto che trovassi un fascino unico nell’essere una persona solitaria.
Con gli anni ho conosciuto il rovescio della medaglia.
Solitudine è invisibilità,
poter essere rapidamente dimenticati,

quasi volerlo.

L’ho desiderato per anni.
Il potere di diventare invisibile.
Tutti i supereroi hanno dei poteri, e pur di non affrontare la vita, cosa poteva esistere di più semplice di svanire?
Ma oggi, nel presente, mentre sono in riva al lago?
Forse è per questo che sono davvero sparita. O forse mi sento sparita.

Ho trovato un’altra linea sottile.

Osservo questa primavera ordinaria, soleggiata, un po’ banale. Anche se rimane uno dei miei periodi preferiti semplicemente perché le persone sembrano pervase solo da buon umore, in primavera.
Mi sento meno sola, in primavera.
È come se i primi, freschi colori della natura carezzassero il viso delle persone con gentilezza, predisponendole a fare altrettanto.
A scanso di equivoci: io amo l’inverno; non riesco tuttavia a scacciare la sensazione che, con il freddo nelle ossa, molti colleghi esseri umani siano più scortesi.
La primavera porta la predisposizione al sorriso.
Sto perdendo di nuovo la bussola.
Domenica sette aprile, la primavera soleggiata un po’ banale, ed un lago verde-azzurro che gioca con le montagne ed il riflesso degli alberi. Di tanto in tanto passa anche una nuvoletta candida ad ombreggiare le persone che sono distese sulla riva ed i bambini che schiamazzano allegri.
Sono qui perché mi sono imposta un atto di coraggio: ho improvvisato un’ambientazione inconsueta per questa giornata, accettando l’invito di un gruppo di amiche. Non sono solita immergermi nella natura, soprattutto se meta di pellegrinaggio di troppe persone. Gli unici luoghi affollati che apprezzo sono quelli dove è facile risultare anonimi, come le metropoli.
Questa mattina tuttavia, quando Vittoria mi ha telefonato con genuino entusiasmo cercando di coinvolgermi, spinta da senso di dovere interiore più che da una reale voglia di stare in compagnia, ho accettato di partecipare.
O forse non è dovere, volevo farlo…

davvero?

Si, questa sarebbe la risposta, se fossi sempre io.
È così che appare la solita linea sottile tra essere solitari ed essere soli.
Non ho mai capito come sono passata da una cosa all’altra. Sarebbe meglio dire che non so come sia arrivata a sentirmi accompagnata dalla solitudine, quella vera, quella a cui non interessa quanti siano gli occhi che brillano intorno a te – e a lei – perché non accetta terzi incomodi, a lei appartengo in un modo che, non posso far a meno di pensare, sia irreversibile. 
Ho immagini sbiadite nella memoria per quanto riguarda gli anni passati, ricordo solo una cosa chiaramente: ero molto diversa. Mi gettavo letteralmente al centro dell’attenzione, mi piaceva essere protagonista, e più di ogni altra cosa ero felice di non essere invisibile. All’epoca mi raccontavo di essere una ragazza riservata, a cui piaceva stare in disparte ed essere poco visibile, ma allo stesso tempo sapevo che non era la verità.
Anche se a volte mi sentivo a disagio – un’altra linea sottile? –.
Ero timida, ma sfrontatamente spavalda.
Spesso mi domando cosa pensino di me le anime che mi circondano.
O forse mi chiedo tanto intensamente cosa abbia fatto a me stessa, da immaginare che anche gli altri facciano altrettanto.
Osservandomi riflessa nei loro occhi vedo una cosa sola: ho perso interesse, sono diventata egoista, scorbutica, solitaria.
Non provo più affetto.

Che cos’è l’affetto?

Ho amicizie che durano da un’intera vita. Le ragazze là sul lago, a pochi metri da me, mi conoscono da quando eravamo bambine. Si sentiranno offese dai miei nuovi comportamenti?  Credo di sì.
La mia realtà si manifesta di fronte a loro in tutta la sua illusoria staticità, lasciando come fotografia solo ciò che possono intuire dal mio silenzio.
I loro occhi non mentono, e le sensazioni sotto la mia pelle neanche: con tutta l’umiltà del mondo  non voglio sprecare il loro – e il mio – tempo nel provare a spiegare che in un qualche modo molto articolato gli voglio bene, anche se non sono più capace di sentire, perché non è quello il problema.
La colpa è solo della solitudine.
In tutta sincerità non capisco perché continuino a provarci con me, non si danno per vinte: non si sono arrese al disinteresse, alla mia palese inutilità quando deve essere portata avanti una discussione.
Continuano ad invitarmi anche se non accetto mai.
Mai, tranne oggi, perché oggi sono qui, sono in riva al lago.

Esisto?  

In questo momento sono in disparte: mi sono allontanata con l’intramontabile scusa di fare una telefonata. In realtà ho solo bisogno del conforto dell’isolamento. Una pausa dallo sforzo di ascoltare la conversazione. Anche se la telefonata immaginaria è terminata da alcuni minuti sono rimasta a lanciare sassolini nel lago. Butto rapide occhiate verso le ragazze, la vita scorre tranquilla: c’è chi sonnecchia, chi gioca a carte, chi ride su qualche battuta.
E così accade: vedo me stessa dall’esterno.
Mi alzo in piedi e raggiungo il gruppo lentamente. Francesca alza lo sguardo verso di me per chiedermi se ricordo quando da bambine i nostri genitori ci portarono in questo stesso posto. L’immagine di giorni passati scalda lievemente qualcosa dentro di me.
Passano pochi minuti e rido, rido tantissimo, con la testa tirata indietro e la bocca aperta, perché Francesca sta raccontando di quella vecchia caduta dentro l’acqua: piedi bagnati ed un’intera giornata con le scarpe zuppe, senza dirlo ai genitori.  
Perché non mi lascio alle spalle i tormenti che mi impediscono di mettere entrambe le orecchie a disposizione dei miei interlocutori? Sembra semplice.
Mi osservo ancora dall’esterno: vedo me stessa iniziare una conversazione vera, non ho paura di parlare, le mie parole hanno valore, non sono vuote –  non le sento vuote –.
È così che scorre una leggera giornata di primavera sulla riva di un lago per chi non ha paura di vivere.
Potrei ricominciare da qui,
punto e a capo: senza paura di sbagliare, senza giustificare quello a cui la solitudine mi ha condannato, senza chiedermi cosa pensino le mie amiche del mio cambiamento.
Per questo oggi ho accettato l’invito: per ricominciare.
Ma il vero slancio di coraggio, quello che mi farebbe davvero alzare in piedi e non immaginarmi di farlo, mi manca.
Una linea sottile.
Smetto di osservare le mie fantasie.
Sono sempre sola in riva al lago a lanciare sassolini.
Mi chiedo ancora, per una centesima volta, come diavolo abbia fatto a lasciarmi lusingare in questo modo dalla solitudine e perché, semplicemente, non cambio atteggiamento.

Perché non posso.

Ci provo, ci ho provato oggi venendo al lago, ho rotto uno schema, ma non sento niente.
Ripenso a stamani mattina. Prima di partire mi sono chiesta se fossi felice della scelta di uscire, o se quella rottura mi avrebbe solo – profondamente – turbata.
Vorrei scomparire, rompere quella linea sottile, cedere, cadere.
Potrei fare come i codardi, quelli che si arrendono.

Ma…
Non sono a casa nel mio letto, sono al lago.

Qualcosa più forte del pensiero e del tormento, più forte dell’abbraccio della solitudine, mi tiene accesa, flebile, in piedi dall’altro lato della linea.
Con la delicatezza e la tranquillità di una piuma che cade, mi suggerisce di sciogliermi dalla condanna di quell’abbraccio.  Dentro di me, ben oltre la falsa ed insoddisfacente idea di staticità, so che non smetterò di combattere.
Non sarà oggi, forse neanche domani, o tra due giorni ancora, ma prima o poi smetterò di osservare la mia immagine muoversi al posto mio: io, solo io sarò la protagonista della mia vita. 

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7. Tempo Tiranno

INTRODUZIONE

Questo racconto del 2016, apparentemente semplice e non troppo articolato, è stato difficile da scrivere: sia come tempistiche, che per quanto riguarda la sintassi. Sono stata ispirata in momenti diversi, ben distinti, che ricordo come fosse ieri. 
La sua collocazione a metà raccolta è ben studiata, ma sta a voi capire cosa trarre emotivamente da questa mia scelta. 
Una curiosità: “Tempo Tiranno”, inizialmente, a coronare la mia difficoltà nel trovare titoli giusti, prendeva il nome “La Landa Desolata”. 
Buona lettura.


La landa desolata era spruzzata di neve per buona parte dell’anno. All’alba di novembre, i rovesci iniziavano a trasformarsi in nevischio, e il manto bianco abbandonava l’ambiente solo ad inizio maggio. In estate – sempre se essa potesse esser definita tale, visto le glaciali temperature di luglio –, i timidi arbusti della pianura erano coccolati da fili d’erba verdi e gialli, e il paesaggio acquisiva così leggere sfumature di colore.
Anche nella bella stagione, però, un occhio attento avrebbe visto ben poco oltre ad un denso bianco sporco: la fitta nebbia, che ingrigiva l’orizzonte quasi ogni giorno, aveva il vizio di scivolare fino a soffocare qualsiasi slancio di vita vegetale.
Solo nei rari giorni di chiaro, accarezzando con mano i fili d’erba e toccando con gli occhi l’orizzonte, si potevano scorgere le dolci vette delle catene montuose: pendii erosi dal vento e dal tempo che, per quanto poco piaccia all’essere umano, scorre in modo inesorabile, portando ogni giorno via con sé piccole parti di ogni cosa.
In quello scenario di desolazione, sul tetto di un colle ad ovest dei rilievi maggiori, vi era un unico segno di presenza umana: un’abitazione maestosa, forse nata sul rudere di una torre di osservazione medievale. Vi abitava un vecchio signore con le sue adorate sette capre e tre domestici: maggiordomo-stalliere, la di lui moglie, e la di lui sorella, affetta da mutismo.  
Lassù la vita scorreva lenta, in modo ripetitivo, con i sospiri ed i pensieri di quelle persone che si a amalgamavano al silenzioso squallore dell’ambiente circostante.
Il dì era sì fatto: ogni mattina il maggiordomo si recava nella stalla alle prime luci dell’alba, accudiva le capre e mungeva il latte fresco, da cui poi la moglie ricavava un buon formaggio.
Al canto del gallo, la sorella muta si presentava nella camera del padrone di casa aprendo le pesanti tende marroni, e lo svegliava servendogli la colazione. Costui, dopo essersi rifocillato, spalancava la finestre della camera da letto ed osservava l’orizzonte. Lì rimaneva come in sacra contemplazione, immune al gelo che penetrava nella stanza. Lo sguardo del signor Cadringher indugiava per lo più ad est, dove la collina su cui si ergeva l’abitazione scendeva dolcemente tuffandosi in un mare di alberi tanto fitti e scuri, che al tramonto potevano essere scambiati per un mare di petrolio.
Dal quel bosco negli ultimi vent’anni non era mai apparsa anima viva: anche gli esploratori più coraggiosi erano intimoriti dall’inospitalità del luogo, mentre i pochi che si avventuravano nella pianura erbosa preferivano passare da ovest, dove una singola, timida strada collegava la landa al resto della civiltà.
Nel pomeriggio, il silenzioso padrone di casa cambiava punto di osservazione: il salottino della libreria era il luogo designato. Si accomodava sulla polverosa poltrona al di sotto della più grande delle finestre, e sprofondando nel tessuto, tra una pagina ed un sospiro, sbirciava verso l’orizzonte, anche nei giorni in cui questo era fatto da sola nebbia.
Le visite all’antica abitazione del signor Cadringher non solo erano infrequenti, ma addirittura praticamente inesistenti.
Il fedele maggiordomo, in sella al vecchio stallone, era l’unico individuo che si muoveva tra quella collina dimenticata da Dio e il resto del mondo, e lo faceva più per dovere che per piacere: qualsiasi contadino, panettiere o commerciante in genere, rifiutava di consegnare in quel luogo.
Più e più volte il padrone di casa si era domandato come mai quello stolto del servo – famiglia annessa – non lo avesse ancora abbandonato a sé stesso, ma non aveva mai espresso a voce alta il suo pensiero. Doveroso aggiungere che, se non fosse stato troppo preso dall’osservare il susseguirsi delle stagioni e l’erodersi delle montagne, avrebbe anche potuto essere grato per quelle silenziose presenze che gli assicuravano il formaggio fresco ogni mattina.
Donát – questo era il nome del vecchio – viveva in isolamento da quando ne aveva memoria, e quest’ultima iniziava da un preciso momento: quando i suoi ultimi affetti erano stati consumati dallo stesso vento che erodeva le montagne.
Alcuni familiari erano stati portati via anzitempo dalla meschinità del Fato, mentre altri si erano semplicemente stancati di quell’uomo taciturno, schivo e introverso, abbandonandolo a sé stesso.
Donát aveva vissuto una vita lunga: dapprima, brevemente, aveva valutato il confusionario mondo esterno, per poi rinchiudersi nel confortevole caos della solitudine, che lo aveva temprato e accompagnato non verso l’autocommiserazione, ma all’accettazione.
La stanchezza di vivere era giunta quando egli era ancora molto giovane, ma di quel momento non ricordava molto.
Talvolta, in inverno, quando le giornate erano tanto brevi da sembrare notti chiare, e la neve cadeva così fitta da far pensare che il bianco fosse il Tutto, qualche ombra gli attraversava gli occhi. Il mondo non esisteva più, e lui sentiva le feroci pugnalate inferte dalla perdita di fiducia, il pizzicare di ferite che solo il tradimento di una persona amata può inferire.

Ma non permanevano.

Rapidamente, silenziosamente, i dolori si mescolavano con la neve, e il vento spingeva le sue piogge interiori verso le montagne, e le trasformava in quelle tempeste bianche che nascondevano l’orizzonte.
Quella desolazione e l’esistenza trascorsa nascosto nel nulla avrebbero accompagnato Donát fino al momento in cui l’ultimo respiro gli si fosse incastrato in gola, soffocandolo.
Tale consapevolezza non lo aveva mai preoccupato, almeno fino al giorno in cui un ragazzetto sgangherato, smilzo e con i vestiti stracciati, giunse alla sua abitazione.
L’incontro avvenne casualmente, durante l’abituale passeggiata di Donát nel roseto.
Il vecchio non diede molta udienza al giovane, ma lui parlava: c’era, da qualche parte, un mondo diverso da quello in cui l’uomo viveva, un mondo in cui il rosso delle rose non ricordava solo il colore del sangue.
Il giovane parlava dei colori brillanti della natura, dei campi di papaveri rossi e delle coccinelle, dei fiumi tranquilli circondati dal verde scintillante delle piante illuminate dal sole. Parlava dei pavoni maestosi e imponenti, della libertà delle aquile, di pendii bagnati di lava che si gettavano coraggiosi nell’oceano, specchiandosi in un blu più profondo della notte. Raccontava di uomini che mangiavano fuoco, e di cavalcate in enormi praterie. Parlava di laghi immobili come specchi, del mondo dei curiosi, degli avventurieri, degli scienziati. Il mondo di chi sdegnava la codardia e ammaestrava la propria esistenza con coraggio, come se fosse uno spettabile direttore d’orchestra di fronte agli strumentisti.
Parlava di un mondo diverso da quello dell’accettazione, nonostante la paura. Un mondo vissuto da chi non ha perso la speranza, anche se non crede più in niente.
Il ragazzo era l’incarnazione dell’entusiasmo, dalla sua bocca sgorgavano parole di disarmante semplicità, arricchite da occhi che avevano vissuto poco, ma allo stesso tempo conoscevano più cose di quante Donát avesse mai visto in una lunga vita solitaria.
Quel giorno qualcosa cambiò nel cuore di Donát. Una sensazione dimenticata lo accerchiò: ebbe paura di sé stesso, di non aver mai veramente vissuto.

Ma nonostante ciò non si mosse. Non subito.

Continuò ad attendere per giorni, mesi, che poi si trasformarono in anni. Aspettava che il coraggio di cambiare lo facesse correre per la prima volta nella vita.
Fu una mattina, quando svegliandosi vide per la prima volta un’aquila sorvolare la valle innevata, che finalmente decise: sarebbe partito non appena l’inverno fosse finito. Avrebbe cercato i colori della vita – l’unica che aveva a disposizione – e il vento della speranza, così da accogliere la possibilità di un nuovo inizio, un altro ancora.
Ma il tempo fu tiranno, non lo perdonò.
Donát, colpito da una forte polmonite, e indebolito dall’età, nonostante le cure del maggiordomo, non superò l’inverno. Lasciò la landa desolata e la vita in perfetta sintonia con il modo in cui aveva sempre vissuto: da solo ed in silenzio.

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6. Wanderlust

INTRODUZIONE

Vi presento il sesto capitolo della raccolta “Imparare a volare”. Il caso vuole che io non ricordi bene come sia nato questo racconto, ricordo però quando: era il 2016, l’anno in cui il mio viaggio è veramente iniziato. Tenete con voi questo racconto, leggetelo con la consapevolezza che la sua posizione a metà raccolta ha un ben preciso significato: da adesso in poi la narrazione diventerà cupa, e, prossimamente, vedranno la luce racconti intrisi di malinconia, melanconia e dolore. 

Per questo racconto ho chiesto alla mia cara amica @giulia_trio_art (studente di pittura ad olio) di creare un’illustrazione ad hoc. Dopo una fase iniziale in cui le ho suggerito le mie idee, abbiamo concluso che la vera espressione artistica richiede spontaneità: Giulia ha creato un disegno sulla base di ciò che il racconto le ha evocato.  


La chiamano wanderlust: la “sindrome” di chi non può stare senza viaggiare. Le persone vacanziere, in modo semplicistico, usano questo termine per descrivere la propria passione nel trascorrere le ferie lontano da casa.
Funziona così la nostra società: ad ogni concetto si attribuisce un nome, un’etichetta; si ricerca un filo conduttore che colleghi tra loro un gruppo di persone, al fine di creare una categoria, che finisce, immancabilmente, per essere main stream.
Mi chiamo Abigail, e non apprezzo questa definizione semplicistica. Non mi ritengo una persona polemica, sono solo molto affezionata a qualsiasi cosa sia in grado di toccare tasti profondi dentro la mia anima, e per me, wanderlust è stato un percorso di vita. 
Questa parola è ormai diventata un brand: la si legge a scopi pubblicitari nelle vetrine delle agenzie di viaggio, la si scorge nelle riviste e nel mondo dei social. Il concetto è stato ridimensionato, fino a rendere ordinario l’eccezionale, e sottrarre un poco di quell’intimità che chi viaggia alla scoperta di desideri ignoti prova quando programma l’atterraggio successivo.

Parecchi anni fa, ero una bambina molto curiosa. Ricordo ancora molto bene di aver scorto quella parola per la prima volta quando avevo appena imparato a leggere: «Mamma, cosa significa wa… wandre… wander… lust?».
Mia madre ed io eravamo sedute nella sala d’aspetto dello studio dentistico, e, in attesa della visita, avevamo casualmente iniziato a sfogliare una rivista. Mentre mamma girava rapidamente le pagine, ero stata attratta da quelle poche sillabe riportate in una pagina colorata, piena di persone sorridenti con in mano valige e borsoni.
«Credo di aver letto questa parola navigando su internet», mi aveva detto, «se non sbaglio, con wanderlust si indica la malattia del viaggiatore», e intanto continuava a sfogliare il giornale distrattamente.
«Oh. Fa male alla salute viaggiare?» avevo chiesto con gli occhi pieni di curiosità.
In risposta mamma aveva iniziato a ridere particolarmente divertita, e posando il giornaletto aveva aggiunto: «Certo che no, bambina mia, è un modo di dire: le persone a cui piace tanto tanto viaggiare lo farebbero sempre. Non appena rincasano da una vacanza, prenotano subito la successiva: si comportano come se fossero dipendenti dal girovagare per il mondo. Per questo, qualcuno ha inventato la parola wanderlust. A me più che altro pare un modo per prendere in giro le persone che sprecano i loro stipendi con queste assurdità».
Nonostante la spiegazione, non avevo capito assolutamente cosa significasse wanderlust. Nella mia testa, infatti, si era generato un curioso gioco di pensieri. La parola “malattia” era stata la causa scatenante: avevo immaginato passeggeri con fratture, con la testa fasciata, il raffreddore o la febbre alta. Non avevo fatto in tempo ad approfondire, perché la dentista aveva aperto la porta dello studio, invitandoci ad entrare, ed una volta finita la visita, la piccola me stessa aveva dimenticato la breve conversazione.
Ciononostante la parola wanderlust, da quel giorno, rimase impressa inconsciamente nei meandri della mia mente. Per un buon motivo, avrebbe commentato il fato, dato che non appena ne ebbi l’occasione, presi il primo aereo in solitudine.

Ricordo bene anche quell’evento.
Era una mattina fresca e soleggiata: l’alba di un’estate che preannunciava di essere torrida. Non ero ancora maggiorenne, e i miei genitori mi avevano accompagnata in aeroporto, da dove stavo per volare fino alla bella Siviglia, nella sconosciuta Spagna.
«Abigail, tesoro, hai fatto programmi per questa settimana di vacanza?» aveva esordito mia madre in auto, risvegliandomi da un nebuloso torpore.
«Nessun programma al momento, ma lo faremo. Maria vive a Siviglia da mesi, conosce il posto», avevo detto distrattamente.
«Vai all’estero senza programmare alcunché? Non sai neanche la lingua, speriamo tu non ti perda all’aeroporto!» a mio padre era sempre piaciuto schernirmi – in modo affettuoso –. Io non avevo dato peso a quelle parole: non riuscivo a guardare oltre il semplice gesto di poter, per la prima volta, volare via.
Più tardi, mentre l’aereo stava per alzarsi verso il cielo, avevo capito: la mia prima vacanza senza famiglia, non era altro che l’inizio del mio wanderlust.

Da quel momento ogni giorno vissuto e ogni anno trascorso, hanno incrementato il mio irrefrenabile desiderio di esplorare, di andare oltre al mondo conosciuto e affrontare sfide impreviste, di scovare posti nuovi, culture, cibi.
Ogni volta che si è presentata l’occasione, ho assecondato il mio bisogno: ho scoperto città costiere e città montane, metropoli e piccoli borghi storici, luoghi moderni e affollati intrisi delle memorie della storia e di chi, prima di me, ha camminato su quelle strade.
Con il tempo ho creato le due versioni di Abigal che esistono oggi: ci sono cose che dico ed altre che mi limito a pensare.
Ciò che dico di amare di più del viaggio, è la possibilità di osservare ogni cosa ed ogni persona, così da sentirmi proiettata alla ricerca di nuove prospettive, nuovi orizzonti: grazie a stimoli diversi da quelli ordinari e possibilità sconosciute, accolgo realtà parallele che non avevo mai considerato prima, semplicemente perché non sapevo della loro esistenza.
Ciò che non dico, è quanto di più profondo io percepisca, perché evoca le emozioni che alloggiano rannicchiate, quasi nascoste, all’ombra delle mie parole: viaggiare per fuggire.
La mia vita, come quella di chiunque altro, è stata costellata da momenti diversi: positivi o negativi, apprezzabili, difficili o stressanti. La immagino schematizzata su un grafico cartesiano: una curva fatta di alti e bassi, picchi e valli. Quando la mia personale curva si avvicina ad un minimo, prenoto un aereo.
Bastano solo pochi giorni in un posto nuovo: agiscono da cura, medicina per la mia insoddisfazione, per la tristezza e la malinconia. Alla costante ricerca dell’eccezionalità che da adolescente invidiavo alle eroine dei romanzi fantasy, non voglio arrendermi ad una vita scandita da ritmi scontati, bensì vivere l’avventura nell’ordinaria eccezione alla routine.
Quando rincaso dopo un viaggio, provo la stessa sensazione che nella mia immaginazione dovrebbe percepire un’automobile dopo il pieno.
O almeno così è stato, fino a pochissimo tempo fa.
All’improvviso, senza avvertimenti, insieme ai doveri e alle responsabilità, sono arrivate consapevolezze nuove: mi sono resa conto che le piccole fughe degli anni passati mi hanno riempita, ma soprattutto illusa. Ho scoperto che fuggire ricarica le mie difese soltanto se, prima della partenza, sono già consapevole di quali siano i miei piccoli nemici. La fuga diventa invece inutile, se a tormentarmi sono i demoni dell’anima che non riesco ad individuare.
Ho colto così una piccola ombra in wanderlust, qualcosa che non riesco a capire fino in fondo, una domanda che nella mia testa risuona sempre più insistentemente: «Dove fuggi, quando ciò da cui fuggi sei te stesso?»
Eccomi: per la prima volta, temo di non poter affrontare un minimo della vita con un viaggio. Ho sempre tenuto le redini della mia esistenza saldamente tra le dita, senza cedimenti o debolezze, per questo adesso ho paura: in me è nato lo sconforto, ho perso la lucidità. Eppure al contempo, ho trovato un nuovo coraggio: quello del cambiamento.
Non posso comportarmi come di consueto, non posso volare via: devo provare a navigare, fare rotta verso gli angoli più reconditi del mare che alberga dentro di me.
Quell’azzurro che ho sempre finto di non conoscere, dicendo a chiunque «A me non piace il mare».
In fondo lo so: se ciò che cerco non sono riuscita a trovarlo in quanto vissuto fino ad ora, non mi resta altra scelta se non intraprendere una rotta che non ho mai intrapreso prima.

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Osservare

È un’estate tiepida e piacevole, accompagnata da un sole che brucia nel cielo senza troppe pretese. Probabilmente quest’anno anche lui si è impigrito: imbroglia l’obbligo di levarsi ogni mattina lasciando spazio alla pioggia almeno una volta ogni due giorni.
E tu, come spesso accade, sei là seduta tra gli scogli, camuffata dalla giornata poco luminosa.
Hai indosso una gonna color sangue lunga fino ai piedi; si è inzuppata di mare sporco, ma non ci badi, perchè il tuo sguardo è perso verso l’orizzonte: indugia sui colori del cielo mentre ringrazi la sacralità di quel luogo, che riesce a nasconderti da qualsiasi occhio rischi di osservarti.
Non ti piace essere osservata, sei piuttosto un’abile osservatrice.
Gli sguardi degli altri, anche se sfuggenti, ti hanno sempre dato fastidio. Ti gettano addosso una sensazione di pressione così fastidiosa… lo so bene, solo tu sai descriverla così come la percepisci.
Per questo quando scherzando tra amici ti viene chiesto: «Se tu potessi avere un superpotere quale sarebbe?» rispondi sempre senza troppi dubbi: «L’invisibilità».
Ma certo, non è ovvio? Soltanto quella dote risulta desiderabile, utile.
Vuoi mettere leggere la mente? Un supplizio.
O vivere per sempre? La peggiore delle condanne.
Volare? Forse questo può essere interessante, ma mai, mai utile quanto essere osservatrice senza venir osservata;
muoversi per le strade senza essere scorta;
essere, senza esser giudicata.
Essere te in mezzo agli scogli, nella tua cara solitudine: senza equivoci, senza abbagli, senza fraintendimenti.

Adesso perdonerai la presunzione di quanto sto per dire: io sono un’eccezione.
Non mi limito ad osservarti: riesco a guardare i tuoi occhi. Addirittura intravedo le smorfie che si susseguono sul tuo volto mentre miri il mare: appari velata da una mite tristezza. Sotto la tua pelle scorre una sottile ma persistente malinconia, che affiora fugace anche quando sorridi, ridi, gioisci.
So che sei brava a gioire, non mi sfuggi: ti ho vista rallegrarti per l’inaspettato, per la magnificenza della natura. Ti ho vista quando hai amato, quando hai donato la felicità, quando hai mangiato il gelato ad inizio primavera, o la prima volta che hai avvicinato le labbra ad un microfono.
Da anni ti osservo dalla mia posizione privilegiata, anche se tu non lo sai. Attendo con pazienza il giorno in cui riuscirò ad inquadrarti, perché mai, in un’intera vita, sono riuscita a farlo.
Chi sei? Ho visto cambiare i paesaggi e te con loro: sei stata in montagna, al mare, al fiume, tra i laghi, sotto alle cascate; hai abbracciato praterie sconfinate, le città, le metropoli, il bosco. Hai indossato vestiti diversi, dipinto i tuoi capelli con l’arcobaleno, ed i tuoi occhi con diamanti scintillanti. Ma niente è durato tranne quella sottile, costante, impercettibile malinconia.
Oggi in riva al mare non riesco ad osservare la tua felicità.
Oh, giovane fanciulla con i capelli scompigliati dal vento e gli occhi rivolti verso il cielo, cosa vuoi di più degli occhi per vedere? Delle orecchie per sentire? Delle mani per toccare? Della labbra per baciare?
Se solo sapessi,
se solo potessi,
placherei il tuo tormento, lo giuro con la mia anima tra le dita, lo placherei.
Parlami, smetti di fingere, so che riesci ad udirmi.
Dimmi: quale volto, tra i nostri, è reale?
Ma tu taci. Osservi le onde, con loro ti agiti… e taci.
Taci come adesso che sei in riva al mare a guardare l’orizzonte, con lo sguardo presente ma allo stesso tempo assente, di chi ancora non ha capito come si smette di osservare sé stessi vivere.

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novellequotidiane

Ti racconto il mio primo ricordo

Introduzione

Su instagram ho trovato una bella iniziativa a cui avrei piacere a partecipare, tempo e fantasia permettendo (sono tra gli italiani che ancora devono andare a lavoro). @margherita.tercon, in vista di questi giorni chiusi in casa, per prevenire la diffusione del covid-19, ha proposto di condividere racconti brevissimi sulla base di sue indicazioni, così da mettere in contatto tra di loro persone appassionate di scrittura o che semplicemente vogliono parlare dei loro ricordi.
Oggi la fantasia mi ha sostenuta: sono riuscita a contribuire all’iniziativa #NovelleQuotidiane. Ho deciso di riproporre anche sul blog il mio micro-racconto. Buona lettura.


Racconto

Un dì il sole gli venne incontro e gli pose un semplice quesito: “Giovane uomo, perché non mi parli del tuo primo ricordo?”.
Lui pensò, pensò e ripensò a quale fosse la miglior risposta, a quale fosse una risposta più che mai vera. Tuttavia così su due piedi, non ne aveva, piuttosto replicò con una domanda: “Il primo ricordo di quale vita?”.
Lui di vite ne aveva vissute due: quella precedente e quella successiva alla malattia della sua mente.
“Non ho ricordi della mia prima vita, ho la memoria troppo corta – disse al sole – non ricordo neanche il primo giorno della scuola elementare o della scuola media. Non ho ricordo di Natali lontani. Vedo solo un ammasso vago di macchie scolorite che si affollano nella mia mente. Salgono a galla solo immagini tristi. Io non so ricordare com’ero”.

Ma della seconda vita sì, di quella aveva un primo ricordo. Era una mattina, anche allora il sole aveva bussato alla finestra.
Negli occhi della mente apparve quella memoria: si era osservato allo specchio e rideva. Oh, si, rideva. Non una risata sguaiata e caotica, neanche una risata finta e tirata.
Era un timido sorriso, sbucava sotto gli occhi impastati dal sonno. Provò affetto per quella persona riflessa, premura. Vedeva nei suoi occhi tanta dolcezza, quella che non aveva mai riservato per sé stesso. Gli parlò piano: “Si – gli disse – sei abbastanza, da oggi in poi ricordalo per sempre”.
“Sole, questa è la mia seconda vita, voglio ripartire da qui”.