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Imparare a volare

7. Tempo Tiranno

INTRODUZIONE

Questo racconto del 2016, apparentemente semplice e non troppo articolato, è stato difficile da scrivere: sia come tempistiche, che per quanto riguarda la sintassi. Sono stata ispirata in momenti diversi, ben distinti, che ricordo come fosse ieri. 
La sua collocazione a metà raccolta è ben studiata, ma sta a voi capire cosa trarre emotivamente da questa mia scelta. 
Una curiosità: “Tempo Tiranno”, inizialmente, a coronare la mia difficoltà nel trovare titoli giusti, prendeva il nome “La Landa Desolata”. 
Buona lettura.


La landa desolata era spruzzata di neve per buona parte dell’anno. All’alba di novembre, i rovesci iniziavano a trasformarsi in nevischio, e il manto bianco abbandonava l’ambiente solo ad inizio maggio. In estate – sempre se essa potesse esser definita tale, visto le glaciali temperature di luglio –, i timidi arbusti della pianura erano coccolati da fili d’erba verdi e gialli, e il paesaggio acquisiva così leggere sfumature di colore.
Anche nella bella stagione, però, un occhio attento avrebbe visto ben poco oltre ad un denso bianco sporco: la fitta nebbia, che ingrigiva l’orizzonte quasi ogni giorno, aveva il vizio di scivolare fino a soffocare qualsiasi slancio di vita vegetale.
Solo nei rari giorni di chiaro, accarezzando con mano i fili d’erba e toccando con gli occhi l’orizzonte, si potevano scorgere le dolci vette delle catene montuose: pendii erosi dal vento e dal tempo che, per quanto poco piaccia all’essere umano, scorre in modo inesorabile, portando ogni giorno via con sé piccole parti di ogni cosa.
In quello scenario di desolazione, sul tetto di un colle ad ovest dei rilievi maggiori, vi era un unico segno di presenza umana: un’abitazione maestosa, forse nata sul rudere di una torre di osservazione medievale. Vi abitava un vecchio signore con le sue adorate sette capre e tre domestici: maggiordomo-stalliere, la di lui moglie, e la di lui sorella, affetta da mutismo.  
Lassù la vita scorreva lenta, in modo ripetitivo, con i sospiri ed i pensieri di quelle persone che si a amalgamavano al silenzioso squallore dell’ambiente circostante.
Il dì era sì fatto: ogni mattina il maggiordomo si recava nella stalla alle prime luci dell’alba, accudiva le capre e mungeva il latte fresco, da cui poi la moglie ricavava un buon formaggio.
Al canto del gallo, la sorella muta si presentava nella camera del padrone di casa aprendo le pesanti tende marroni, e lo svegliava servendogli la colazione. Costui, dopo essersi rifocillato, spalancava la finestre della camera da letto ed osservava l’orizzonte. Lì rimaneva come in sacra contemplazione, immune al gelo che penetrava nella stanza. Lo sguardo del signor Cadringher indugiava per lo più ad est, dove la collina su cui si ergeva l’abitazione scendeva dolcemente tuffandosi in un mare di alberi tanto fitti e scuri, che al tramonto potevano essere scambiati per un mare di petrolio.
Dal quel bosco negli ultimi vent’anni non era mai apparsa anima viva: anche gli esploratori più coraggiosi erano intimoriti dall’inospitalità del luogo, mentre i pochi che si avventuravano nella pianura erbosa preferivano passare da ovest, dove una singola, timida strada collegava la landa al resto della civiltà.
Nel pomeriggio, il silenzioso padrone di casa cambiava punto di osservazione: il salottino della libreria era il luogo designato. Si accomodava sulla polverosa poltrona al di sotto della più grande delle finestre, e sprofondando nel tessuto, tra una pagina ed un sospiro, sbirciava verso l’orizzonte, anche nei giorni in cui questo era fatto da sola nebbia.
Le visite all’antica abitazione del signor Cadringher non solo erano infrequenti, ma addirittura praticamente inesistenti.
Il fedele maggiordomo, in sella al vecchio stallone, era l’unico individuo che si muoveva tra quella collina dimenticata da Dio e il resto del mondo, e lo faceva più per dovere che per piacere: qualsiasi contadino, panettiere o commerciante in genere, rifiutava di consegnare in quel luogo.
Più e più volte il padrone di casa si era domandato come mai quello stolto del servo – famiglia annessa – non lo avesse ancora abbandonato a sé stesso, ma non aveva mai espresso a voce alta il suo pensiero. Doveroso aggiungere che, se non fosse stato troppo preso dall’osservare il susseguirsi delle stagioni e l’erodersi delle montagne, avrebbe anche potuto essere grato per quelle silenziose presenze che gli assicuravano il formaggio fresco ogni mattina.
Donát – questo era il nome del vecchio – viveva in isolamento da quando ne aveva memoria, e quest’ultima iniziava da un preciso momento: quando i suoi ultimi affetti erano stati consumati dallo stesso vento che erodeva le montagne.
Alcuni familiari erano stati portati via anzitempo dalla meschinità del Fato, mentre altri si erano semplicemente stancati di quell’uomo taciturno, schivo e introverso, abbandonandolo a sé stesso.
Donát aveva vissuto una vita lunga: dapprima, brevemente, aveva valutato il confusionario mondo esterno, per poi rinchiudersi nel confortevole caos della solitudine, che lo aveva temprato e accompagnato non verso l’autocommiserazione, ma all’accettazione.
La stanchezza di vivere era giunta quando egli era ancora molto giovane, ma di quel momento non ricordava molto.
Talvolta, in inverno, quando le giornate erano tanto brevi da sembrare notti chiare, e la neve cadeva così fitta da far pensare che il bianco fosse il Tutto, qualche ombra gli attraversava gli occhi. Il mondo non esisteva più, e lui sentiva le feroci pugnalate inferte dalla perdita di fiducia, il pizzicare di ferite che solo il tradimento di una persona amata può inferire.

Ma non permanevano.

Rapidamente, silenziosamente, i dolori si mescolavano con la neve, e il vento spingeva le sue piogge interiori verso le montagne, e le trasformava in quelle tempeste bianche che nascondevano l’orizzonte.
Quella desolazione e l’esistenza trascorsa nascosto nel nulla avrebbero accompagnato Donát fino al momento in cui l’ultimo respiro gli si fosse incastrato in gola, soffocandolo.
Tale consapevolezza non lo aveva mai preoccupato, almeno fino al giorno in cui un ragazzetto sgangherato, smilzo e con i vestiti stracciati, giunse alla sua abitazione.
L’incontro avvenne casualmente, durante l’abituale passeggiata di Donát nel roseto.
Il vecchio non diede molta udienza al giovane, ma lui parlava: c’era, da qualche parte, un mondo diverso da quello in cui l’uomo viveva, un mondo in cui il rosso delle rose non ricordava solo il colore del sangue.
Il giovane parlava dei colori brillanti della natura, dei campi di papaveri rossi e delle coccinelle, dei fiumi tranquilli circondati dal verde scintillante delle piante illuminate dal sole. Parlava dei pavoni maestosi e imponenti, della libertà delle aquile, di pendii bagnati di lava che si gettavano coraggiosi nell’oceano, specchiandosi in un blu più profondo della notte. Raccontava di uomini che mangiavano fuoco, e di cavalcate in enormi praterie. Parlava di laghi immobili come specchi, del mondo dei curiosi, degli avventurieri, degli scienziati. Il mondo di chi sdegnava la codardia e ammaestrava la propria esistenza con coraggio, come se fosse uno spettabile direttore d’orchestra di fronte agli strumentisti.
Parlava di un mondo diverso da quello dell’accettazione, nonostante la paura. Un mondo vissuto da chi non ha perso la speranza, anche se non crede più in niente.
Il ragazzo era l’incarnazione dell’entusiasmo, dalla sua bocca sgorgavano parole di disarmante semplicità, arricchite da occhi che avevano vissuto poco, ma allo stesso tempo conoscevano più cose di quante Donát avesse mai visto in una lunga vita solitaria.
Quel giorno qualcosa cambiò nel cuore di Donát. Una sensazione dimenticata lo accerchiò: ebbe paura di sé stesso, di non aver mai veramente vissuto.

Ma nonostante ciò non si mosse. Non subito.

Continuò ad attendere per giorni, mesi, che poi si trasformarono in anni. Aspettava che il coraggio di cambiare lo facesse correre per la prima volta nella vita.
Fu una mattina, quando svegliandosi vide per la prima volta un’aquila sorvolare la valle innevata, che finalmente decise: sarebbe partito non appena l’inverno fosse finito. Avrebbe cercato i colori della vita – l’unica che aveva a disposizione – e il vento della speranza, così da accogliere la possibilità di un nuovo inizio, un altro ancora.
Ma il tempo fu tiranno, non lo perdonò.
Donát, colpito da una forte polmonite, e indebolito dall’età, nonostante le cure del maggiordomo, non superò l’inverno. Lasciò la landa desolata e la vita in perfetta sintonia con il modo in cui aveva sempre vissuto: da solo ed in silenzio.

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novellequotidiane

Ti racconto il mio primo ricordo

Introduzione

Su instagram ho trovato una bella iniziativa a cui avrei piacere a partecipare, tempo e fantasia permettendo (sono tra gli italiani che ancora devono andare a lavoro). @margherita.tercon, in vista di questi giorni chiusi in casa, per prevenire la diffusione del covid-19, ha proposto di condividere racconti brevissimi sulla base di sue indicazioni, così da mettere in contatto tra di loro persone appassionate di scrittura o che semplicemente vogliono parlare dei loro ricordi.
Oggi la fantasia mi ha sostenuta: sono riuscita a contribuire all’iniziativa #NovelleQuotidiane. Ho deciso di riproporre anche sul blog il mio micro-racconto. Buona lettura.


Racconto

Un dì il sole gli venne incontro e gli pose un semplice quesito: “Giovane uomo, perché non mi parli del tuo primo ricordo?”.
Lui pensò, pensò e ripensò a quale fosse la miglior risposta, a quale fosse una risposta più che mai vera. Tuttavia così su due piedi, non ne aveva, piuttosto replicò con una domanda: “Il primo ricordo di quale vita?”.
Lui di vite ne aveva vissute due: quella precedente e quella successiva alla malattia della sua mente.
“Non ho ricordi della mia prima vita, ho la memoria troppo corta – disse al sole – non ricordo neanche il primo giorno della scuola elementare o della scuola media. Non ho ricordo di Natali lontani. Vedo solo un ammasso vago di macchie scolorite che si affollano nella mia mente. Salgono a galla solo immagini tristi. Io non so ricordare com’ero”.

Ma della seconda vita sì, di quella aveva un primo ricordo. Era una mattina, anche allora il sole aveva bussato alla finestra.
Negli occhi della mente apparve quella memoria: si era osservato allo specchio e rideva. Oh, si, rideva. Non una risata sguaiata e caotica, neanche una risata finta e tirata.
Era un timido sorriso, sbucava sotto gli occhi impastati dal sonno. Provò affetto per quella persona riflessa, premura. Vedeva nei suoi occhi tanta dolcezza, quella che non aveva mai riservato per sé stesso. Gli parlò piano: “Si – gli disse – sei abbastanza, da oggi in poi ricordalo per sempre”.
“Sole, questa è la mia seconda vita, voglio ripartire da qui”.

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Attimi

Eternità

L’ho odiata questa vita. Giuro, l’ho odiata per un’eternità.
Uno stesso lasso temporale può essere percepito come breve o infinito, a seconda di ciò che lo accompagna.

Le novità lo accorciano, l’abitudine rende ogni ora uguale a sé stessa; ripetizione, schemi, ore dilatate,
una giornata… sembra… non finire… non finire… finire… mai.

L’alba del nuovo giorno incombeva. Aveva un fiato fetido e insostenibile. Il nuovo giorno era vuoto di sapori, pieno di ore, un susseguirsi univoco, senza un colore.
Grigio.
Un circolo vizioso.
E’ così che ho capito di odiarla per la prima volta.
Era un giorno di pioggia, no, forse era un giorno di sole, no.
So solo che quando mi sono svegliata ero talmente stanca che già sembrava sera, sul collo pesava una coperta grande come un macigno. Inquietante.
Pillole di sopportazione sul comodino, erano apparse.
Pillole di sopportazione, le mandavo giù – metaforicamente –  ogni mattina sperando che bastassero per arrivare alla notte, così da poter sparire sotto le coperte – quelle vere, fatte di stoffa –.

La mia eternità di odio verso questa vita, vissuta con stoica sopportazione e quella forza d’animo che si riconosce solo ai cavalieri (con cavallo armatura e tutto), al momento di tirare le somme ho scoperto essere durata al massimo un paio d’anni.
E che sono un paio d’anni in confronto ad un’intera esistenza?
L’ho odiata questa vita, per un’eternità talmente breve che a un certo punto ne sono uscita.
Ho smesso di odiarla, questa vita.
Non mi piacciono i circoli viziosi, preferisco la fantasia fantasiosa, fatta a modo mio.
Mi piace vedere un po’ di sole, che sia prima o dopo la pioggia poco importa, basta che ci sia.
E comunque la pioggia non dura mai per sempre.

E l’odio è raro.

Quando ci si concede precipitosamente all’odio si mette un piede in fallo già ancor prima di aver davvero mosso la gamba.
Mi rendo più chiara e leggibile: odiare qualcosa (o qualcuno) è, di fatto, un fatto impegnativo: tempo, memoria, pazienza, impegna giorni, ore, mesi, impegna la rabbia. Se qualcosa (o qualcuno) ti ha talmente rotto le palle da tendere ai limiti della sopportazione i tuoi poveri nervi… non vuoi saperne più nulla.

Mi spiego?

Piuttosto un sorriso di sfuggita “arrivederci, grazie, e a mai più”
ma odiare? Fate sul serio?
Una bella fatica.
Provare una roba del genere: se lo si fa non si può essere tanto ingenui da pensare che l’oggetto verso cui è rivolta tale sensazione non sia davvero importante.

E lei… che vi devo dire? Importante lo era. Importante lo è. Valeva la pena di sprecare tempo per odiarla.

Così ho lentamente accettato di pensarla con tanta intensità e… come dire: mi sono arresa a non odiarla più. Non è colpa sua se dobbiamo convivere – io e lei – e soprattutto quando dobbiamo conversare non posso sottrarmi, la testa è una (potrei staccarmela?). Insomma, per rompere la mia abitudine fatta di alzate mattutine con coperta e pillole, sono arrivata ad un estremo gesto, primordiale, sconsiderato. Ho iniziato a smettere di farmi domande.
Per esempio: vi siete mai chiesti quale possa essere l’effetto sull’ordine dell’universo nello scegliere se andare a mangiare la pizza o il sushi? Gelato al cioccolato o al pistacchio? Pullman o tram? Cosa può determinare questa scelta nella vita delle altre persone, o nell’equilibrio del loro organismo? O del vostro organismo? La storia del battito d’ali di una farfalla? Se oggi mi gratto la testa, cosa succederà nell’equilibrio del mio cuoio capelluto?
Complicazioni. Dubbi amletici. Rapporti interpersonali… aperti e incontrollati.
No, non lo faccio più.
La curiosa novità si è creata da quando alle domande rispondo con sarcasmo. Ho anche sviluppato senso di piacere nel riuscire a trasmettere a chi mi trovo di fronte il semplice concetto di farsi un pochino meno domande. Un pochino meno cazzate, per così dire.

Durante quell’eternità di odio e pillole di sopportazione, alla fine ho anche imparato a guardare il punto di vista diverso, da cui non posso più prescindere se voglio vedere la punta di bianco nel nero. Quell’unico – per ora –  punto di vista che ancora non avevo mai esplorato, quello che mi ha fatto dire che se la si odia, un po’, in fondo questa vita anche la si ama.
E ciò che si ama non può che essere semplice.

L’ho sempre pensato: le cose complicate – troppo complicate – richiedono energie (infinite) per poter essere amate senza renderci l’esistenza un inferno. Detto da una ingarbugliata come me…
Ho scoperto anche che, se chi ho intorno ride, rido meglio anche io.
Assurdo, ma a me piace ridere.
Forse un po’ per egoismo vorrei che anche altri non la odiassero, la vita, o che quantomeno non se la complicassero.
Può essere che io sia un po’ egoista, ma anche se non lo vedo un egoismo dannoso è pur sempre accompagnato dal giudizio.

O magari, ancora non ci ho capito nulla.