Per finire di revisionare questo racconto sono serviti tre anni. Pare un tempo infinito, ma finalmente ecco il nono capitolo.
La depressione può assumere molti volti, e per ognuno è un’esperienza diversa. “Il destino del solitario” tra le sue righe nasconde molte realtà, la depressione è una di queste.
Accadde in un gelido pomeriggio di gennaio. Il villaggio abbracciato dal candore della neve riluceva silenziosamente, ma là, dentro al bosco, prevaleva l’incerta oscurità. Il sentiero, quasi cancellato dalle intemperie dell’autunno, era indistinguibile in mezzo agli enormi abeti.
Grigio, asettico: il bosco non poteva che mostrare il suo volto più inospitale.
Accadde in un insignificante giorno di gennaio mentre camminava con passo lento e osservava distrattamente la neve sfuggita alla cattura dei rami più alti, chiedendosi se il freddo che le bruciava le labbra venisse da fuori, o fosse parte di lei.
Lizbeth era una bambina vivace e curiosa, ben educata e cortese, ma molto schiva. Non le piaceva avere tante persone intorno e trascorreva le giornate in compagnia di sé stessa. Non era solita giocare con i suoi coetanei e rifiutava la compagnia degli adulti come quella degli animali. L’unica cosa che sembrava interessarle davvero era immergersi nella natura ed esplorare i dintorni.
Tutti al villaggio provavano un grande affetto per lei, ma soprattutto tanta tenerezza: era così piccola, e così sola.
I compaesani la osservavano da lontano lasciandole vivere indisturbata le sue piccole, coraggiose avventure, ma sempre con la speranza che arrivasse anche per lei il giorno in cui si sarebbe integrata nella società, per questo cercavano di convincere gli altri bambini a coinvolgerla nei loro giochi, anche se inutilmente.
Ogni anno Lizbeth diventava sempre più audace, seppur frenata da un monito: mai entrare nel bosco da sola: “Il bosco non è un posto per bambine! Solo gli uomini, in gruppo, vi si addentrano per andare in città. È certo una scorciatoia, ma quanto pericolosa – le diceva sua mamma scuotendo la testa per il disappunto – e tu sei così piccola e indifesa, non vorrai farmi morire di crepacuore. Quando non sono a casa devi stare con le tue amichette, come una brava bambina”.
La donna ripeteva incessantemente queste parole, senza rendersi conto che la sola idea di fare qualcosa di proibito era per Lizbeth come l’invito ad un banchetto. E poi di essere una brava bambina non gliene importava proprio niente.
Quando compì dodici anni, la piccola sentì fosse giunto il momento di ignorare quella raccomandazione, e forte del proprio coraggio si avventurò tra i tronchi degli abeti. Ebbra di eccitazione per aver trasgredito, mentre passeggiava fuori e dentro il sentiero, si convinse che non ci fosse niente di sinistro o pericoloso nel bosco: se avesse rispettato la natura, quella avrebbe fatto lo stesso con lei.
Le sue scappatelle andarono avanti in segreto fino all’anno successivo, quando venne scoperta in pieno misfatto. Commise una leggerezza: per inseguire un daino si perse, e rincasò quando era già buio.
Nel tardo pomeriggio i suoi genitori, in preda alla disperazione avevano già allarmato tutto il vicinato. Per quello quando Lizbeth arrivò nella piazza principale si trovò di fronte mezzo paese e non poté accampare scuse.
L’inimmaginabile gioia nel vederla tornare sfumò in pochi istanti, sostituita da nervosismo, e la situazione peggiorò ulteriormente quando la bambina disse: “Mamma il bosco non è pericoloso come credi. Oggi mi sono allontanata troppo, ma non mi perderò più”.
Trascorsero settimane di punizioni inutili: le fu proibito stare da sola, la costrinsero ad andare a giocare con le sue coetanee e ad imparare a ricamare, provarono ad impegnarla nei lavori domestici e le affidarono la cura delle galline. Ma niente la distoglieva dal suo desiderio di esplorazione solitaria, così continuava a sfuggire dal controllo degli adulti, tanto che alla fine smisero di punirla.
Gli anni passarono e Lizbeth diventò una giovane donna indipendente: dopo quella prima volta, si era addentrata tanto spesso nel grigiore della natura che avrebbe giurato di potervi vagare anche ad occhi chiusi, ascoltando i soli suoni del sottobosco ed il suo istinto. I rumori provocati dai cerbiatti mentre fuggivano nelle tane, dagli uccelli in cerca di cibo, dagli insetti svolazzanti e dalle lepri frettolose erano la sua bussola.
Anche adesso che la non-più-piccola aveva vent’anni, non era abile nell’intessere relazioni: interfacciarsi con altri esseri umani le sembrava una perdita di energie preziose. Preferiva girovagare percorrendo strade che non conosceva ma che le venivano suggerite dalle farfalle.
Ormai tutti al villaggio si limitavano a salutarla per la strada e ad inventare storie su dove andasse quando la vedevano sparire per giorni interi. Qualcuno era addirittura certo che fosse una strega e che prima o poi li avrebbe venduti tutti al demonio.
Accadde un gelido pomeriggio di gennaio.
Lizbeth si era avviata nel bosco da poche ore. Doveva andare in città a fare acquisti, ma invece di percorrere il sentiero abitudinario aveva fatto alcune deviazioni: voleva vedere come era mutato il paesaggio dopo le copiose nevicate dell’ultima settimana, per questo avrebbe dovuto raggiungere i crinali.
Il bosco era cupo come sempre, anche se il ghiaccio e la neve creavano degli interessanti giochi di luci. Intorno a lei c’erano specchi di acqua congelata e rami ricoperti di neve, i pochi coraggiosi arbusti ai suoi piedi rilucevano come spade di ghiaccio. Il sole che filtrava tra i rami rendeva l’ambiente più accogliente e la vista piacevole, ma lei notava soltanto il grigiore, come se fosse calata una notte prematura.
La consapevolezza che qualcosa era andato storto arrivò lentamente, quando capì di trovarsi in mezzo ad una natura che non conosceva. Perché non era ancora giunta al grande albero secolare di riferimento?
Inizialmente, invece di allarmarsi si limitò ad ignorare i consigli del buon senso: non poteva essersi persa. Sicura che il cammino rimasto per giungere in città fosse ormai breve, e fiduciosa che avrebbe presto trovato lo svincolo giusto, continuò a camminare.
Fu quando il sole si nascose e la notte minacciò di avvolgerla nel suo freddo abbraccio che mise in dubbio sé stessa.
“Se rispetti la natura, anche lei rispetterà te” disse ad alta voce.
“Io ti ho sempre rispettata, tu mi hai sempre rispettata. Cosa è cambiato oggi? Ti ho forse offesa in qualche modo?”. Guardò avanti a sé: vedeva solo alberi e ancora alberi, intervallati da rocce in schemi che non riconosceva, e poi ghiaccio, neve e gelo. La temperatura stava scendendo vertiginosamente.
Il bosco, il luogo che l’aveva sempre sfidata e stimolata, che le aveva tenuto compagnia e che le aveva mostrato il percorso per diventare adulta, per la prima volta la stava attaccando con armi da cui non poteva difendersi. Era stanca e spossata, e i morsi della fame non le davano tregua. Bastò un istante di distrazione: presa dallo sconforto inciampò sul terreno sconnesso picchiando forte la testa sul suolo. Aiutandosi con le braccia riuscì a scivolare verso un albero e ad accasciarsi contro il tronco, mentre qualcosa di umido le scivolava sopra l’occhio.
Passarono alcuni istanti, o forse intere stagioni.
Fece sogni piacevoli e colorati, l’aria era tiepida intorno a lei. Sedeva sopra dell’erbetta verde, mentre il calore del sole le riscaldava un lato del volto. La neve non c’era più, si era trasformata in acqua ed era andata ad arricchire i torrenti.
Capì di non essere sola. Aprì gli occhi e le vide: “Sono tornate le farfalle” disse sorridendo. Erano così belle nei loro vivi colori blu, rosa, verdi e arancioni. Disegnavano nell’aria delle scie luminose contro cui si rifletteva il bagliore del sole. Si posavano sui fiori e si lasciavano trascinare dal vento. Le rincorse scansando con rapidità i rami pieni di foglie giovani e delicate che le carezzavano il viso e le braccia. Voleva sorridere, ridere. Con la bocca, con gli occhi e con il cuore.
Arrivò fino ad una radura piena di fiori e riscaldata dal tiepido sole primaverile. Quello era il suo luogo preferito, il suo porto sicuro: lo aveva scoperto tanti anni prima e vi trascorreva lunghe ore a scrivere le sue poesie. In quella radura sperduta albergava la sua felicità.
Ma improvvisamente lo scenario cambiò: il sole si spense e gli alberi intorno a lei si seccarono, come se l’umidità fosse stata risucchiata via insieme alla loro vita. Tra i rami mangiati dal freddo si intravedeva un cielo nero privo di stelle. Il freddo pervase la radura, il ghiaccio ricoprì i fiori e le farfalle, fino a farsi spazio nel cuore di Lizbeth stringendolo nel suo pugno.
Si svegliò.
Non era nella radura, ma accovacciata contro un albero freddo come un blocco di ghiaccio. Intorno a lei non era più buio, tra i rami filtrava la luce mattutina.
Era incredibilmente sopravvissuta al gelo della notte. Riprese lentamente il controllo del proprio corpo, gli arti erano come ingessati. Con molta fatica portò una mano in alto per toccarsi il viso e sentì che il sangue sgorgato dalla ferita si era congelato tra i suoi capelli.
Si alzò trovando conforto nell’idea di arrivare alla radura del sogno. Lo percepì come un segno: avrebbe ritrovato l’orientamento, e anche se il corpo le rispondeva a malapena non smetteva di camminare.
Non aveva mai prestato ascolto a chi le diceva che il bosco era pericoloso, forse quella era la giusta punizione per la sua arroganza.
Aveva appena conosciuto il freddo così come glielo avevano sempre descritto: quello che viene da dentro, attanaglia le ossa e i muscoli, fino ad insinuarsi nello spirito, per poi lacerarlo.
Dopo ore di cammino gli occhi iniziarono a trasudare gocce di disperazione, ma l’aria era tanto fredda che le lacrime le si ghiacciavano sul viso.
Cadde di nuovo, e si accorse che sopra di lei era visibile il cielo: aveva raggiunto la radura. Un piccolo moto di vita dentro di lei le ricordò che avrebbe dovuto esserne felice, da quel luogo sapeva come tornare a casa.
“Solo qualche minuto – si disse – devo riposare un attimo gli occhi”. Stava sfidando la sorte, ne era consapevole, ma era così stanca. Si girò supina sul terreno freddo per osservare il sole nascondersi dietro alle nuvole grigie.
“Il destino che aspetta le persone solitarie non è mai benevolo, ricordatelo Lizbeth” una volta sua madre le aveva detto così per spaventarla, ma neanche in quel momento rimpianse la solitudine.
Chiuse gli occhi. Quando li riaprì qualcosa di freddo le annebbiò la vista. Neve. Provò a portare una mano verso il volto per pulirli, ma non ci riuscì: non poté ammirare lo spettacolo dei cristalli di ghiaccio che lentamente ricoprivano gli alberi, il terreno, e il suo corpo abbandonato in quella radura.
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