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Imparare a volare

5. Il roseto

introduzione

Non voglio spendere troppe parole per introdurre questo quinto capitolo, darò solo qualche informazione: il racconto, scritto nel 2017, è inspirato ad una storia vera, molto più vecchia di me. Secondariamente è l’ultimo racconto della raccolta che tratta il tema di una relazione amorosa, ed anche l’ultimo racconto in cui i colori caldi e luminosi regnano sovrani.

Due doverosi ringraziamenti: a Francesca Cappucci, giovane professoressa ed accanita lettrice, per aver revisionato lo scritto. A makielisewin, per aver scattato e poi condiviso con me la foto che fa da copertina a questo racconto!

Racconto

Nella campagna Toscana, nel paese dove molti anni or sono fu costruita casa Riglietti, la primavera è solita iniziare sotto l’abbraccio di un tiepido sole, pronto per cullare la rinascita della natura. Ogni anno le farfalle e le api ronzano tra i peschi rosa ed i susini bianchi disseminati tutto intorno al roseto, soffermandosi di tanto in tanto a baciare un fiore. Non lontano, giusto qualche metro più in alto, svolazzano gli uccellini che ignorando il muro di cinta, planano sul salice piangente che cresce rigoglioso al centro del roseto.
Il cancello principale della proprietà appare come la cornice di un quadro perfetto: un osservatore esterno ficcando il naso oltre le sbarre, si troverebbe di fronte ad un ordinato vialetto ghiaiato adornato da statue bianche; non meno di 25 metri più avanti questo si biforca conducendo sulla sinistra alla grande ma delicata abitazione, e sulla destra, al giardino di rose perfettamente curato.
Il roseto è una vera attrazione per i compaesani, che da sempre lo ammirano per i suoi scintillanti colori: impeccabilmente rosso e verde. Nessuna rosa, infatti, ha mai avuto il permesso di crescere se di un colore diverso: così fu deciso parecchi anni fa dal Signor Riglietti, che in accordo con i giardinieri fece piantare solo rose rosse, come regalo segreto alla moglie, che le amava.
Molti anni sono sfumati da quei giorni, e Leonor Riglietti è rimasta l’unica maniacale curatrice di quei fiori. Con l’età della pensione e molto più tempo libero a disposizione, dedica tutta sé stessa a quelle rose, come se tali premure fossero rivolte anche a chi, molti anni prima, le aveva fatto dono di esse e che la vecchiaia le aveva portato via.

*

La mattina del sedici aprile gli uccellini cominciarono a cantare senza sosta sin dalle prime luci dell’alba. Si apprestavano ad accogliere il nuovo giorno svolazzando tra un ramo ed un altro, accompagnando aprile con i loro spettacoli musicali ed i volteggi coraggiosi, eseguivano impeccabilmente il compito di allietare il dì senza curarsi di tutto il resto, finendo così per svegliare Leonor Riglietti ancor prima del solito. 
Dopo aver aperto la finestra del secondo piano e spalancato le persiane, Leonor si soffermò ad osservare gli instancabili cantanti piumati e l’aria pungente del mattino le rinfrescò il viso svegliandola definitivamente.
La vita di Leonor era stata piena, lei stessa avrebbe potuto definirla una vita molto felice. Donna gentile e di innata bontà, da sempre trovava il perché nelle piccole cose e il senso della vita nell’intimità di una famiglia unita, e  nella spontanea generosità con cui donava sé stessa al prossimo.
Consumata la colazione, si avvolse nel morbido scialle di lana e, forbici da giardinaggio alla mano, si avviò verso le rose con l’obiettivo di riuscire a concludere la pota prima di sera. Mentre lavorava con pazienza e dedizione, la sua mente scelse un ricordo da farle rivivere, complice la data: era un lunedì sedici, così come quel terribile giorno di agosto di tanti anni prima era il numero sedici.

Erano gli anni ’50: all’epoca viveva con i genitori, tre fratelli e la sorella maggiore. In quegli anni le famiglie medie non conoscevano lo sfarzo, o anche la semplice condizione di benessere tipica del primo ventennio del duemila; tuttavia la famiglia di Leonor era serena e piena di aspettativa, visto ogni piccola novità portata da una nazione in forte ripresa dopo la guerra.
Tecnologia all’avanguardia, internet e videogiochi non vivevano neanche nelle fantasie dei bambini. Ma a cosa servivano? A quei tempi bastava un cioccolatino per essere felici!

«Mamma! mammaaa» il flusso di pensieri di Leonor fu interrotto da una familiare voce femminile in lontananza: era sua figlia.
«Sono nel roseto» rispose alzando il volume della voce.
Non più di un paio di minuti dopo, una bella donna sulla quarantina che le somigliava molto le diede il buongiorno con un abbraccio.
«Intorno alle rose già di prima mattina?» le chiese.
«Oh sì, mi sono alzata molto presto. In questa stagione hanno bisogno di cure meticolose, sai?»
«Ancora non capisco perché non lasci che il giardiniere ti aiuti, almeno una volta a settimana!» 
«Non sono mica così vecchia. Lui ha tutti gli alberi da frutto da curare, con le rose posso cavarmela da sola» e, detto questo, tornò a portare l’attenzione sui rametti secchi.
«Questo giardino è enorme, mamma – disse la figlia con tono di resa, ben consapevole che non sarebbe servito a niente insistere – hai un altro paio di forbici da pota? Vorrei aiutarti. Almeno io posso?»
Leonor sorrise, e come se si fosse aspettata quella domanda, estrasse dalla tasca del suo ampio grembiule l’utensile.  
Madre e figlia trascorsero qualche minuto parlando dell’andamento scolastico dei nipoti e del pranzo di Pasqua imminente, ma in poco tempo la mente di Leonor tornò al ricordo di quel sedici agosto. Non potendolo più tacere si rivolse alla figlia, chiedendole se per caso avesse mai udito il racconto di quel giorno.
Ambra si soffermò a pensare per qualche istante, poi delusa disse: «No, non che io ricordi, mamma».
«Vieni – disse mettendo in tasca le forbici – prendiamoci una pausa» e si incamminò verso la panchina ombreggiata dal salice piangente. Una volta comoda, con lo sguardo verso l’orizzonte, Leonor iniziò a raccontare.
«Era proprio una bella giornata di sole, come questa. All’epoca frequentavo un ragazzo da qualche tempo. Bada bene: non frequentavo – sottolineò la parola – come fanno quei giovani di ora senza ritegno – scosse una mano e strizzò gli occhi come a scacciare il pensiero – andammo al cinema qualche volta, rigorosamente accompagnati da mia sorella, tua zia.
Lui si spostava molto in bicicletta, e innumerevoli volte si fermò davanti alla mia abitazione per parlare con i miei fratelli. Era una scusa bella e buona: sono sempre stata consapevole che aspettava semplicemente che io tornassi da lavoro.
Era proprio un bel giovanotto, sai? Biondo come un angelo e con gli occhi azzurri, quasi grigi. Ricordo molto bene anche il suo giovane sorriso: era ammaliante.
La nostra frequentazione – scandì ancora la parola – non fu una cosa semplice: lui era claudicante e a quei tempi un piccolo paesino come il mio non brillava certo di mentalità aperta.
La sua condizione fu causata da un incidente domestico accaduto quando aveva solo pochi mesi: le ossa della sua gamba si rovinarono completamente. I suoi genitori raggiunsero l’ospedale con troppe ore di ritardo, ed i medici non riuscirono a curarlo. Ci pensi? Al giorno d’oggi probabilmente avrebbero risolto tutto senza complicazioni, grazie agli innumerevoli mezzi di trasporto e alla vicinanza delle strutture ospedaliere».
Si soffermò un attimo sospirando. La figlia la osservò senza azzardare commenti, fino a che non riprese a raccontare.
«Le persone non si curavano di celare commenti di sdegno. Più volte ho udito bisbigliare cattiverie alle mie e alle sue spalle. Dicevano che se ci fossimo sposati i nostri figli sarebbero stati storpi, come lui. Non capirò mai come si possa essere così crudeli. Se avessi potuto scegliere, non avrei voluto udire quelle parole, e soprattutto non avrei voluto che lui sentisse.
La mia istruzione era misera e figuriamoci se conoscevo la medicina, ma nel profondo sapevo che lui era perfettamente normale. Quelli non erano altro che pregiudizi inaccettabili, ma a quanto pare giudicare una persona solo dal suo aspetto esteriore era un’abitudine radicata».
«Ma io quell’uomo l’ho conosciuto?» la interruppe Ambra con un velo di consapevolezza.
«Fammi finire prima di commentare. Dunque, stavo dicendo… ah, sì il  sedici agosto, io e questo giovane uomo avevamo un altro appuntamento al cinema. Fu Una giornata davvero piacevole, almeno fino a quando lui non mi fece un regalo. Negli occhi ho ancora quelle immagini, come se fosse accaduto ieri: dalla tasca estrasse una scatolina marrone e al suo interno c’era un anello. Non portava incastonata una pietra preziosa, ma era bellissimo. In quegli anni non erano possibili tali spese, bisognava pensare a far mangiare la famiglia prima di comprare anelli! Ero ancora ammutolita dal gesto, quando aggiunse che voleva portarmi a conoscere i suoi genitori – Leonor scosse la testa – ricordo ancora che il panico mi strinse il petto.
In pochi minuti lo congedai con una scusa, e con tua zia al mio fianco corsi verso casa. Mentre lei cercava di capire cosa mi fosse successo, dalla mia bocca usciva un fiume sconnesso di parole, condite da ansie e paure, ovviamente nessuna di queste era minimamente legata alla sua condizione di salute, no: ero terribilmente giovane e insicura, figlia mia. Fragile, terrorizzata dal dovermi legare davanti alla legge e davanti a Dio; accettare il regalo e la sua proposta per me era pari ad una promessa matrimoniale: come potevo sapere se lui era l’uomo che volevo per sempre al mio fianco? Così, poche ore dopo il cinema, in seguito a fiumi di lacrime versate, percorsi a piedi i pochi chilometri fino a casa sua e lo lasciai».
Leonor si interruppe per qualche secondo, così sua figlia, con sguardo confuso e divertito, ne approfittò per intervenire:
«Beh se per te è stato tremendo, figuriamoci per lui!»
Leonor scosse la testa sorridendo «Poche volte nella vita sono stata male come quel giorno ed i giorni successivi. Ero consumata dall’angoscia, dal senso di inadeguatezza. Gli volevo un bene che veniva dal profondo della mia anima, ma avevo così tanta paura delle scelte per il futuro. Ormai ero una giovane donna, ma mi sentivo poco più che una ragazzina in preda al panico di affrontare i vent’anni. Ogni mattina mi alzavo dal letto con il terrore di cosa sarebbe successo da lì all’ora in cui mi sarei coricata nuovamente, come se il solo essere sveglia potesse sopraffarmi. La mia testa era un turbinio di pensieri ed emozioni: quante giornate passai a piangere con tua zia, che in parte mi consolava e in parte mi sgridava.
Con il passare dei giorni mi resi conto che era la vita in sé a spaventarmi, non l’avere un uomo accanto. Realizzai che era per quello che lo avevo lasciato: non volevo condizionare con i miei timori un’altra vita. Non ero così egoista».
Leonor si interruppe e con un passo piuttosto svelto per la sua età, si diresse verso i fiori. Con un gesto rapido tagliò a metà ramo la rosa più bella di tutte.
«Perché?» le chiese Ambra, che l’aveva raggiunta. Invece che risponderle Leonor le chiese se avesse voglia di accompagnarla al cimitero.
Madre e figlia raggiunsero la macchina, e pochi minuti dopo varcarono il cancello cigolante del camposanto di paese. La primavera era esplosa anche tra i marmi bianchi e neri, che erano stati adornati da fiori di tutti i colori. 
Le due donne si fermarono di fronte ad una tomba di marmo chiaro, sopra la quale una foto ritraeva un uomo dal sorriso smagliante e due profondi occhi azzurri, quasi grigi.
A quel punto Leonor riprese il racconto da dove lo aveva interrotto: «Dall’orrendo sedici agosto per un po’ di tempo non ci incrociammo. Sai, senza tecnologia era facile evitarsi. Fino ad un giorno, in cui passò davanti casa mia con la sua bicicletta. Stavo per scappare in casa, ma mi vide, e non volendo essere scortese mi fermai a salutarlo: parlammo per ore. Da quel giorno le sue “casuali” gite di fronte a casa mia divennero sempre più frequenti. Spesso lo scorgevo ridere insieme ai i miei fratelli che lo avevano molto a cuore, praticamente erano amici. Alla fine mi arresi: smisi di evitarlo, e conobbi sua madre, poi tutta la sua famiglia.
Tre mesi dopo eravamo sposati. Ero insicura certo, ma lasciai andare le paure più grandi, decisa di imparare a conviverci».
«Scelta avventata» commentò Ambra.
«Forse, ma da quel giorno non ci siamo mai lasciati».
Leonor si voltò verso la figlia porgendole la rosa che teneva ancora stretta in mano. Ambra si chinò e la adagiò a fianco della foto che ritraeva l’uomo dagli occhi azzurri. 
«In questa foto il suo viso è segnato dal tempo, ma è bello come quando aveva vent’anni. Il corpo è debole, il tempo non è misericordioso: la malattia lo ha spento troppo presto».
Ambra si alzò in piedi, e mettendo una mano sul petto di sua madre le disse: «Papà non ci ha lasciato davvero, vive qui. Vive nelle rose del nostro giardino, vive nel ricordo. Sarà eterno fintantoché ci sarà qualcuno a ricordare l’amore che ci ha lasciato quando era in vita».
Leonor le sorrise e spostò lo sguardo verso il cielo, mentre con le dita accarezzava quell’anello che da più di cinquant’anni le abbracciava il dito.  

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3. Malinconia e tè caldo

INTRODUZIONE

Il padre di questo racconto è un insieme scompigliato di pensieri che scrissi durante una notte insonne, praticamente in dormiveglia. Una cascata di emozioni e una valanga di perché. All’epoca ero reduce da una delle varie volte in cui avevo avuto il cuore spezzato, quella volta forse, più di ogni altra. Era stata diversa, più intensa, più coinvolgente e causata in parte (almeno così pensavo) dal mio carattere troppo fiero, orgoglioso. Riempivo pagine e pagine di pensieri, ma guidata da un forte senso di dignità non proferivo verbo.


« ‘cause I can’t help but wonder, what if I had one more night for goodbye? »

These four walls – Little mix

Era un tardo pomeriggio velato di grigio come se ne vedevano tanti altri. La pioggia non batteva, era tanto leggera che nascondeva la propria presenza agli occhi di chi non prestava attenzione, ma non per questo era poco abbondante.
Cullata da questa cupa ma confortante atmosfera, mi affacciai alla finestra strizzando gli occhi. Il mio vano tentativo di mettere a fuoco l’orizzonte si concretizzò quando inforcai gli occhiali chiedendomi se l’acqua che bagnava ogni cosa fosse frutto della mia immaginazione, o se veramente il cielo stesse piangendo.
Che folle questa pioggia sottile.
Proprio in quel momento, quasi come se la natura fosse stata offesa dai miei pensieri, cadde una prima goccia pesante, un’altra ancora ed il primo fulmine squarciò il cielo illuminando il gli alberi immobili.
Di lì a poco avrei potuto sedermi davanti alla finestra con un tè in mano, ospite allo spettacolo offerto dalla natura che avevo fatto arrabbiare.
Stavo aspettando il momento propizio per concedermi di aprire la serratura dei pensieri scomodi, quelli che sono solita omettere per convenienza, per affrontare il quotidiano senza intoppi.
Purtroppo per me, la serenità duratura e reale necessita che si vada incontro ad ogni ostacolo, quindi eccomi: ero pronta ad affrontarmi.
La me stessa di qualche anno prima sarebbe caduta in uno dei suoi tipici stati di strana apatia, tuttavia quando si cambia non si è più chi eravamo soliti essere, nevvero?
Da non molto tempo avevo trovato una fedele e gentile compagna: la Malinconia. Quanti stupidi la sottovalutano, eppure è una sensazione meravigliosa: ascolta ed insegna, concede di richiamare ricordi, ma è molto severa quando esageri. Ammonisce decisa ricordandoti che i ricordi non potranno mai essere più di ciò che sono: fastidiose e rumorose immagini di cose andate, perdute, anche se impossibili da insabbiare.
Malinconia nel mio essere combatte contro Speranza, e garantisco che le due non possono vedersi.
Speranza è solita piangersi addosso, proprio per questo Malinconia non perde occasione alcuna per rimetterla in riga, insegnandole come meglio può il discrimine tra ciò che è reale e ciò che di reale ha solo una sensazione di vuoto e sconforto, come quando ci si sveglia da un sogno troppo bello.
Chi vuole – sinceramente – vivere nei sogni?
Sicuro come la morte che questo non vuole farlo Malinconia.
Così, al mattino, quando Speranza alza il capo per proporre le sue idee, Malinconia le dà le botte. Intendiamoci bene, delle botte davvero sonore. Le immaginavo come quelle che il nonno dava a mio cugino quando lo beccava a rubare le uova dal pollaio del contadino che viveva alla fine della via. Quale umiliazione, pover’uomo, se suo nipote fosse stato sorpreso nel piccolo furto.
La determinazione di mio cugino, invece, mi ricordava Speranza: per quante botte prendesse quel furfante, la tentazione di fare colazione con i tuorli freschi sbattuti insieme allo zucchero bianco era troppo forte.
La storia del pollaio è sicuramente divertente e interessante, ma il parallelismo finisce nel momento in cui ci si rende conto che Speranza e Malinconia non se la giocano solo tra di loro come il nonno e mio cugino, bensì hanno tante compagne che recitano a fianco a loro.

Quando un ennesimo lampo abbagliò il cielo mi riscossi dai miei pensieri rendendomi contro che era giunta l’ora di fare una doccia, dal momento che, contro ogni mia aspettativa, avevo accettato l’invito a cena delle mie amiche – chiara dimostrazione che l’apatia dormiva un sonno profondo: potevo stare in mezzo ad altri esseri umani senza odiarli –.

Forse fu a causa dell’aver atteso un attimo di troppo, o forse fu il sorso di tè rilassante… invece di recarmi in bagno rimasi seduta e mi domandai cosa sarebbe successo se noi avessimo avuto una sera in più.

Una sera in più per salutarci.

Una sera in più per salutarti.

Banale.
E’ una domanda che può risultare banale, ronza in testa a molti quando si trovano nella situazione in cui mi trovavo, ma io da quella domanda ero stata colta alla sprovvista.
Non ero mai stata molto brava con i pensieri gentili, la mia dura indole aveva sempre puntato il dito, cercato accuse e colpe,  assaporando possibilità di vendetta. Avevo sempre portato avanti la prima sentenza, disdegnando di opinioni contrarie che mai ascoltavo.
Per questo mi sorpresi così tanto, mi sembra di ricordare che tra le labbra sibilai «Davvero me lo sto chiedendo? Proprio io?».
Con la voce del pensiero mi risposi che non solo mi consentivo di porre la domanda, ma che volevo anche una risposta.
Fu a quel punto che Malinconia, affiancata dalla sua ombra Razionalità, mi tirò un calcio. Già, perché avevo appena dimenticato di osservare l’ovvio: avevo già avuto quella sera in più.
La sera in cui ci siamo parlati di nuovo, ci siamo salutati a modo nostro, con molte parole che hanno avuto la solidità necessaria per chiarire quello che non era stato chiarito e per placare le ire nate dall’ingenuità del dubbio, accompagnate da quelle nate da ferite profonde, ma in via ormai, di definitiva guarigione.
Quella sera in più è stata la sera che tutti immaginano sempre, che tutti richiedono silenziosamente sotto consiglio di Speranza, ma che in pochi riescono a ricevere davvero.
E io… nella mia vita non avevo nemmeno mai avuto la sensazione di desiderarla, troppo orgoglio. Impossibile da credere che mi ritrovai a rendermi conto che l’avevo ricevuta in dono dalle coincidenze. Come avrei potuto non rimanere un poco perplessa?
Era tempo, infatti, che Speranza aveva rinunciato a lusingarmi, niente più tentativi di farmi pensare a come sarebbe stata, quella sera in più. Così come lei era silenziosa anche Malinconia. Nessuna delle due aveva sprecava fiato.
Era Razionalità, pomposa e imbellettata, la vera protagonista.
Le guardava dall’alto in basso dicendo «Io sapevo che è da stolti desiderare una sera in più».
E aveva ragione… perché non basta mai.
Ogni sera in più cerca un’altra sera in più.
Ogni frase in più crea domande che vorrebbero nuove risposte.
Speranza inizia ad essere fastidiosamente interessata a parlare, così Malinconia deve fare gli straordinari.
E la povera Razionalità (non che a lei dispiaccia, è una gran presuntuosa), dopo aver ammonito tutti, si accolla il fastidioso compito di ribadire a tutta la baracca che se è andata in un modo, non sono gli abbracci di un momento, le carezze o i baci a cambiare la realtà.
Anche se mi stringevi, anche se sembravi lungi dal lasciarmi andare di nuovo, se tu ed io ci siamo salutati una prima volta, che il saluto sia stato piacevole o meno, la concessione di un’ulteriore possibilità di salutarci, non avrebbe fatto cambiare assolutamente niente.
Non avevo – e non ho – mai visto persone tornare indietro, persone in grado di rivedere i propri passi andando oltre all’orgoglio.
Avrei potuto accusare il momento di essere colpevole, gli animi di non essere abbastanza maturi, avremmo potuto chiederci come sarebbe andata con la possibilità di scegliere un altro tempo in cui incontrarci, o cosa sarebbe successo se solo avessimo avuto qualche ora in più.
Ma più di ogni altra cosa, non potei fare a meno di domandarmi cosa sarebbe successo se non avessi scelto di fare finta di niente e chiudere tutto, se fossi stata diversa, più docile, se avessi davvero provato a portarti via con me, invece di limitarmi a pensare – fortemente – di averlo fatto.
Anche se sapevo che non volevi, anche se sapevo che la tua serenità non dipendeva da me.
Io scorgevo i tuoi occhi, mi guardavano, ma non  mi vedevano.

A quel punto della mia conversazione interiore il tè si era raffreddato. Forse la temperatura di un autunno che volge al termine aveva accelerato il processo, ma era comunque un lasso di tempo abbastanza lungo, indubbiamente sufficiente per concedersi certi pensieri prima di lasciarli andare una volta per tutte, per sempre.
Mentre mi alzavo dalla sedia facendo evaporare le mie sensazioni, un attimo prima di svanire in fumo una domanda silenziosa mi attraversò la coscienza, a dispetto di Malinconia, Razionalità e Speranza:

«Se mi voltassi e ti chiedessi un’altra penultima volta per salutarci, verresti?»