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Imparare a volare

2. Il vento

Introduzione

Il vento è il secondo racconto della raccolta “Imparare a Volare”. È stato scritto in tanti momenti diversi, una creazione in divenire, la prima sperimentazione nel 2015 in cui ho cercato di dare vita ad una storia in cui i concetti facessero da contorno. Il vento è stato scritto con l’ambientazione e i colori negli occhi: stavo di fronte al pc immaginando le colline Lucchesi, il sole arancione, il vino, ed un grande casolare rosso mattone. 
Alcuni scambi di parole in questo racconto sono stati ispirati da conversazioni che al tempo erano attuali, che mi rimbombavano in testa, e  che oggi, chi sa perché, non ricordo neanche più.


Quando le porte del treno si aprirono, il sole si stava preparando a coricarsi dietro le colline. I colori che la abbagliarono erano così vividi che le parve di essere inciampata dentro ad un quadro: i girasoli e le piante verdi si abbracciavano salutando l’azzurro che da li a qualche ora avrebbe lasciato lo spazio all’oscurità.  Su quella tavolozza due nuvolette bianche si rincorrevano spinte dallo stesso vento che scompigliava i capelli biondi della ragazza solitaria.
Era una calda sera di settembre, l’epilogo di una delle tipiche giornate estive che non vogliono arrendersi all’avvento dell’autunno.

Appena scesa dal treno, la giovane si era ritrovata in un paesino sperduto. Non aveva la più pallida idea di che luogo fosse: durante il viaggio si era addormentata per qualche ora, non appena sveglia si rese conto che il tempo era trascorso senza il suo consenso, così si era precipitata alla porta del vagone scendendo frettolosamente alla prima stazione.
Nell’edificio della ferrovia intravide una sola biglietteria. Un cartone bianco e consumato portava sopra una scritta poco definita che recitava “chiuso”. Il sospetto che il cartello fosse lì da mesi le attraversò la mente, tanto quello era rovinato.
Fuori dalla stazione alcune arzille vecchiette sedevano ad un tavolino, protette dal sole all’ombra di una veranda. Le donne vedendo giungere quella giovane titubante e con aria un poco spaesata, in preda ad una smaniosa curiosità, avevano distolto la loro attenzione dalle carte e sorridendo le avevano augurato una buona serata.
L’apparizione di una ragazza di quell’età in paese era un vero e proprio evento, le carte potevano sicuramente aspettare; non appena la giovane si allontanò di qualche passo le vecchiette iniziarono a confabulare tra di loro.

<<Cecilia, hai mai visto quella biondina? Così giovane e in giro da sola con uno zaino! E hai visto i calzoni? Sono tagliati malamente… le scoprono le cosce! Le ragazze oggigiorno non hanno più il senso del decoro. Una bella gonna dico io, sarebbe molto meglio>> aveva tentato di bisbigliare – con poco successo – una di loro.
<<Mai prima di oggi>> rispose una di quelle.
<<I primi alloggi? Ma che dici?>> la ragazza, che intanto stava camminando con passo ciondolante nella direzione opposta, udendole nascose una risata con un colpo di tosse: evidentemente una delle signore doveva essere un po’ sorda.
<<Ha detto mai prima di oggi>> preciso una terza voce tra le anziane.
<<Come?>>
<<Mai prima di oggi>> dissero in coro tre di loro.
<<Oh misericordia Alberta, che giornate difficili quelle in cui dimentichi l’apparecchio acustico>> asserì la signora di nome Cecilia sbuffando e rimescolando le carte.
Per la giovane sarebbe stato molto divertente rimanere nei paraggi ad ascoltare clandestinamente la conversazione, ma non poteva permetterselo. Doveva cercare un posto dove trovare qualcosa da mettere sotto i denti e soprattutto, un posto dove dormire.  

Dopo aver individuato un bar che risultò essere chiuso, si avviò verso quella che sembrava la strada per il casolare che faceva capolino sulla collina.
Passeggiava con tranquillità in un vitigno. Dopo aver rubato qualche chicco d’uva dai filari, si era persa nell’ammirare il fascino del tramonto, uno dei suoi momenti preferiti della giornata.
<<Non è molto educato rubare l’uva. Non è tua>>.
Lo sguardo della ragazza cadde sulle proprie mani che la incastravano con le schiaccianti prove del delitto: erano chiuse a coppa per sostenere una manciata di acini viola, impossibili da nascondere. Di fronte a lei c’era un ragazzo non molto alto con un ciuffo di riccioli neri e ribelli che gli cadevano morbidi sulla fronte. Aveva un’aria un po’ scanzonata.  <<Ehm… è tua?>> accennò con sguardo colpevole.
<<Così sembrerebbe>> commentò lui.
<<Mi spiace… davvero! Ero diretta al casolare, ma sono stata distratta dai colori del tramonto e ho preso l’uva con superficialità, senza pensare a quello che stavo facendo>> mentre formulava la frase, il ragazzo si avvicinò, prese tre chicchi e dopo esserseli cacciati in bocca, li schiacciò tra i denti ammiccando.
<<Tranquilla, basta non dirlo a mio padre>>.
Detto questo si avvicinò al filare e staccò un grappolo intero. <<Direi che anche questo non è mai successo. Vieni. Se ti piace il tramonto non vale proprio la pena stare qui, ti porto io nel posto giusto>> e senza aspettare che lei gli rispondesse, né tanto meno presentarsi, si avviò a passo spedito tra le piante.
Qualche minuto più tardi, i due sedevano sul prato ombreggiato da folti olivi, di fronte a loro si vedeva tutta la piccola valle e le montagne oltre cui il sole stava scomparendo.
<<Chi sei? Cosa fai da queste parti? Non si vedono spesso giovani sconosciuti>> commentò lui.
<<Viaggio. Mi sono addormentata in treno e appena sveglia sono scesa alla prima stazione. E in quanto a chi io sia, vorrei saperlo anche io. Tu chi sei?>> il ragazzo la guardò incuriosito, si strinse nelle spalle e disse semplicemente <<Il figlio di mio padre, il proprietario di questo podere>> poi, scrutandola come se fosse un delinquente in fuga, aggiunse <<Sei in vacanza e ti sei persa?  Sei scappata di casa e non vuoi lasciare tracce? O magari hai qualche problema con la legge?>>
<<No assolutamente, nessuna delle tre – rise – sono partita un po’ di tempo fa con tanta voglia di vedere cosa ci fosse fuori dalla mia realtà, mi sono sempre spostata, non ho una meta precisa>>.
<<Bello – disse lui con aria distratta – e perché viaggi in questo modo?>>
<<Voglio vedere un po’ di mondo. Soprattutto voglio vedere le persone>>.
<<Non avrai molto da vedere qui. Siamo in campagna! A parte qualche vecchio, i loro nipotini e la mia famiglia puoi giusto presentarti a qualche pecora. Faresti bene a cercare una meta migliore>>. La ragazza era visibilmente divertita dal modo di fare del riccioluto, per altro non era la prima volta che uno sconosciuto non capiva il suo bisogno.
<<Io non sono d’accordo, trovo questo posto molto interessante. C’è un bel silenzio tra queste colline, un atmosfera utile per ordinare pensieri confusionari. Hai mai provato la sensazione di essere sommerso da ondate di riflessioni aggrovigliate e sovrapposte, tanto da non capire quale di esse voglia prendere il sopravvento sul rumore di fondo?>>
Dallo sguardo del suo interlocutore ebbe l’impressione che lui pensasse di avere davanti una un po’ svitata.
<<Non credo di seguirti>>.  
<<Non sto vaneggiando senza senso, anzi sto cercando un po’ di chiarezza>>.
<<Prenderti una camomilla e dormirci sopra nel letto di casa tua ti sembrava troppo semplice? Non ti piace il main stream, eh?>>
Lei si alzò in piedi e prese a passeggiare tra gli olivi.
<<Penso che sia molto più interessante bearsi dello stimolo di luoghi mai visti, rispetto all’ordinario. Non è più facile o più difficile, è… diverso. La terra è vasta, ci pensi a quanto sono diverse le menti di tutte le persone che vi muovono i propri passi ogni giorno? Siamo illuminati tutti dallo stesso sole, e baciati tutti dalla stessa luna, ma le mie percezioni sono diverse dalle tue, così come è diversa la percezione delle signore che ho incontrato fuori dalla stazione. Gli esseri umani sono i più grandi mercanti che esistono per il fatto stesso di essere umani. Ognuno di loro porta con se una grande ricchezza>>.
Il ragazzo era interdetto e scosse la testa <<Se avessi un tesoro in tasca mi comprerei una casa in città e mi costruirei una vita lì>>.
<<Non hai modo, a priori, di sapere se sarebbe la scelta giusta>> lo apostrofò lei.
<<Lo sarebbe. In città non sarei più costretto a passare le giornate a prendermi cura di una stupida vigna della fattoria. Potrei diventare un uomo d’affari, diventerei ricco e potrei avere qualsiasi cosa di cui io abbia bisogno. Potrei avere anche tutte le donne che voglio>>.
<<Io a casa ho tutto quello di cui tu pensi di aver bisogno. Ho una bella famiglia, viviamo in una città grande. Mio fratello sta per laurearsi in medicina, io avevo un buon lavoro. Sicuro anche>>.
<<E vorresti dirmi che hai lasciato tutto questo per partire con un inutile zaino in giro per le campagne?>> era sconcertato.
<<Si. Non sempre tutto ciò che appare perfetto e desiderabile agli occhi di chi ne rimane esterno è sufficiente per dire “ho abbastanza”. Io voglio di più. Voglio potermi confrontare con il mondo, voglio crescere con ogni esperienza, essere smussata e contraddetta. Tornerò a casa un giorno non molto lontano, e ci tornerò con una grande ricchezza>>.
Il ragazzo notò che gli occhi di lei avevano assunto una nuova luce, gli ultimi raggi di sole le illuminavano le iridi verdi facendole brillare come smeraldi, e allora seppe che le parole della giovane non erano lasciate al vento, non erano grosse frasi presuntuose infiocchettate solo per apparire di bell’aspetto e suscitare ammirazione. C’era qualcosa di più in quello che lei voleva dire, ma non era sicuro di riuscire a coglierne fino in fondo il significato, così lasciò perdere almeno per il momento e le chiese da quanto tempo stesse viaggiando.
Era trascorsa qualche settimana dalla sua partenza.
<<Sono partita con un po’ di soldi e mi fermo dove trovo ospitalità o dove posso lavorare per qualche giorno in modo da riempire il portafoglio per il successivo viaggio in treno>> spiegò.
Continuarono a parlare fino a che il brusio dei pensieri della ragazza non vide emergere la necessità di quel momento: un letto e un pasto. Chiese al riccio se fosse disponibile ad offrirle ciò di cui aveva bisogno, e così ottenne di rimanere a dormire nel casolare per qualche notte. In cambio avrebbe aiutato la famiglia nei lavori della vigna.
Una nuova tappa del suo viaggio stava prendendo forma.
Mentre lo seguiva dentro l’abitazione, attendeva con trepidazione di vivere le nuove esperienze in campagna.

Intanto una parte di lei già pensava a dove l’avrebbe condotta il vento della settimana successiva.

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Poesie

Via Maestra

Se mai
camminerò sulla mia strada
avrò ancora paura
che sia quella sbagliata.

Se mai
percorrerò lande sconosciute
avrò il sospetto
che siano la mia casa.

Imparerò ad ascoltare,
non avere fretta,
un sussurro
prima o poi
aprirà le porte della realtà.

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Attimi

Non so parlar d’amore

C’era una brezza leggera. Offriva una via di fuga ai capelli che aveva raccolto in una coda scarmigliata.
Era notte. Piena estate. Avrebbe detto insopportabilmente torrida, se non fosse stato per quel vento leggero che la rinfrescava abbastanza da costringerla, per stare all’aperto, a portare uno scialle sulle spalle. <<E di grazia – si disse –  finalmente un po’ di pace dai 40 gradi all’ombra>>.
Era seduta sul tetto del palazzo, in bilico tra il vuoto e lo spiazzo che stava sopra gli appartamenti condominiali; una delle sue gambe penzolava nel baratro che avrebbe condotto alla morte qualsiasi anima vi fosse caduta, a meno che questa non fosse dotata di un paio di ali. L’altra la teneva stretta al petto come fosse un peluche.
Le piaceva andare sul tetto a notte fonda. La quiete – parziale – che otteneva lassù pur essendo in una città così grande, le ricordava vagamente il silenzio del paesino in cui era cresciuta.
La cosa di cui sentiva di più la mancanza erano le stelle: in campagna l’inquinamento luminoso ridotto al minimo le consentiva di bearsi di uno spettacolo di luci meraviglioso, le costellazioni visibili quasi come se il cielo fosse una mappa tracciata. E le notti senza luna! In quei momenti la via lattea la abbagliava quanto un faro.
In città era diverso. Solo da lassù riusciva a scorgere qualche puntino nel cielo, ma solo i più luminosi e solo nelle notti più fonde.
Non era mai stata una persona a cui piacesse andare a letto presto, aveva sempre visto nella notte un fascino unico, soprattutto con la sua mente che in quelle ore faceva gli straordinari, così che non riusciva a dormire.
Quella sera aveva in mano una pagina di un suo vecchio diario, l’aveva strappata quello stesso pomeriggio nascondendola in tasca. Aveva tenuto diari per tutta la vita, ma raramente si ritrovava a leggere parole del passato. La pagina recitava:

“Lei è così. Pensa, va in confusione. Si contraddice, fa domande a cui non sa rispondere o a cui risponde in un modo che non le piace. Allora scava, scava, scava ancora… cerca, si immerge… sprofonda.
E’ buio, ma non ha paura. Ma ha paura. Allora deve riemergere in tutti i modi, a qualsiasi costo. Non ha mai capito, non è mai riuscita a vedere dove sta la semplicità. Cosa si provi nella semplicità.
‘Non cercare ostacoli, bambina, potrebbero non essercene.’ Qualcuno le aveva detto così. Qualcuno mi aveva detto così.

Mille e mille volte si era ritrovata ad affrontare il mondo che si diramava nella sua testa; parallelo alla realtà di tutti gli altri, per questo impossibile da carpire ed inesplorato dai più, ma sicuramente non meno reale. Nessuno sapeva dell’esistenza di quel mondo.
Forse qualcuno per sentito dire, ma il sentito dire rimane una leggenda in confronto all’ineluttabile realtà dove tutti nuotano senza farsi troppi domande, tra cui se esista altro di reale.
Lei camminava da sempre in bilico tra quelle due linee parallele, per questo per lei le cose, a volte, fungevano al contrario: “Non cercare strade più semplici, potrebbero non essercene”.

Speculazioni generiche: il suo punto forte, ma non il motivo per cui quella sera andò sul tetto. O forse si, dipende da come si osserva il motivo scritto nel successivo paragrafo di quella pagina di diario.
Un concetto che affascina e perché no, ossessiona, la mente degli uomini, creature ossessionate dall’amore.
Omologandosi alla moltitudine di ossessionati, nel suo diario aveva scritto tanto sull’amore, ma solo quella pagina del 15 Luglio 2017 quel giorno aveva destato la sua attenzione. Erano passati quasi tre anni da quelle frasi e ricordava benissimo la paura con cui le aveva scritte, pensando di essere incapace di amare.

Pensando che non ne sarebbe mai stata capace.

“Io ancora non ho capito cosa voglia dire amare. Credo di essere troppo impegnata a studiare meticolosamente  tutte le cose che non mi merito di avere e che non mi merito di sentire. O mi vergogno. Provo imbarazzo per la mia sensibilità.
Te diario senti? Che lingua piena di vocaboli con più significati che è l’italiano.
“Do you feel it?”
Caro diario, te le provi quelle emozioni?
Quelle negative, quelle positive, tutte. Io credo di essere stata, ad un certo punto, talmente convinta di non meritare quelle positive che ho smesso di sentirle. E la legge universale è semplice ed uguale per tutti. Quando una cosa pensi di non meritarla, semplicemente, quella non arriva. Chiamiamola legge di natura o grandissima rottura di coglioni – o enorme quantità di pippe mentali –  ma io sono seppur positiva, molto triste.
Ultimamene nel guazzabuglio, ho scoperto che posso piangere. Posso piangere per qualsiasi cosa, pare sia umano e non da persona debole.
Posso piangere per i nodi in gola, per un dito tagliato, anche per il nulla.
Mi hanno detto che è così che si ricomincia a sentire.
Deve essere così anche capire di amare.
Smettere di avere paura delle sensazioni, capire che non sono destinare a sovrastarti lasciandoti senza aria da respirare.
Quelle due parole rimangono incastrate in gola di punto in bianco, anche nei momenti in cui ti dici “forse in questo momento dovrei dirlo, ci starebbe bene”. La lingua si incolla al palato talmente tanto fortemente da impedire di aprire la bocca. A un certo punto come fai a non pensare di essere incapace di amare? Semplicemente, certe emozioni non fanno per me. Troppo complicato. Troppo difficile. Troppo… troppo.”

Sorrise.
In quel momento, ne era capace?
Era sempre stata sentimentalmente impulsiva, da quando era appena adolescente. Aveva avuto gli occhi a cuore, dolci e colmi di speranza, fino a diventare pieni di odio per questo “concetto” che all’epoca non riusciva a definire “solo” sentimento.
Strade semplici, concetti semplici, questi sconosciuti! Per lei, di banale, non era mai esistito niente.
Ricordò di aver passato mezza – o tutta – l’adolescenza a ripetersi che sta roba, l’amore, non esisteva.
Successivamente, da persona equilibrata quale sapeva di non essere, ribaltò tutto: un bel concetto.
Accontentiamoci quindi.
Anche lei lo meritava, no? Tutti meritiamo di innamorarci, siamo talmente meritevoli che scambiamo l’infatuazione con l’amare, con l’annessa trappola di scambiare l’eccitazione dei primi due mesi – l’adorabile e insostituibile invaghimento – per qualcosa che non è.
Andava sempre allo stesso modo: la relazione finiva per scelta non sua, così lei stracciava il suo spirito bagnandolo di fiumi di lacrime. Oppure, se la relazione durava troppo, non le andava più a genio. E giù a riempire pagine di diario.

Si alzò in piedi sul cornicione e sorrise al vento. Guardò giù. Le macchine sfrecciavano ed erano piccole piccole, viste da lontano. Dalla tasca prese l’accendino e per alcuni lunghi secondi si chiese se volesse o meno bruciare quella pagina.
<<No. È passato, ed è parte di ciò che sono oggi>> si disse.
Stava per accendersi una sigaretta, ma il gatto, che era appena apparso di soppiatto, aveva altri programmi, e iniziando a  strusciarsi insistentemente alle sue caviglie la costrinse ad accarezzarlo.
<<Gatto, ho imparato ad amare secondo te?>>
Lui in risposta le diede un ultimo colpo di coda sullo stinco ed iniziò a preoccuparsi dei pipistrelli che volavano a bassa quota.
Un vero felino, molto interessato alla sorte della sua umana.
<<Sai gatto, probabilmente io funziono al contrario. Ho imparato prima cosa vuol dire essere amati. A parte te, che beh… sei costretto, esiste anche un’altra persona che intravede quel casino dell’universo che ho dentro la testa e non scappa>>. Il gatto continuava a saltellare tra le piastrelle parecchio disinteressato al suo monologo, ma lei continuò a parlare.
<<Magari non capisce, come te, ma vuole farlo. Ascolta, ha opinioni… e riesce nella cosa più grande che un essere umano possa fare: non si alimenta di giudizio.
Fa domande, non formula ipotesi.
Consigli non sentenze.
Sorrisi non derisione.
Leggerezza non superficialità.
E io non volevo meritarmelo per niente al mondo. Ma poi alla fine succede, succede davvero.
Capisci che c’è qualcosa di più profondo rispetto alla meravigliosa eccitazione dei primi mesi perché l’inesplorato che vive dentro la tua testa sgorga come un fiume in piena chiedendo liberazione dall’universo vile che compone la tua realtà e che nessuno riesce a vedere. Tranne lui.
Non si tratta più di sentirsi meritevoli di cose belle, non si tratta di avere o meno la forza di affrontarsi da soli ogni giorno, si tratta della dolcezza dell’avere un aiuto a liberarsi, la priorità cambia perché c’è solo il bisogno di sentirsi dire che la pioggia prima o poi smetterà di cadere, che qualcosa di giusto dentro la tua testa c’è, che addirittura ti meriti di essere felice>>.

<<Miao!Prrr…>> Il micio guardava a turno tra lei e la porta delle scale. Aveva sonno. O fame. Aprì la porta e scese due rampe di scale fino a casa. Entrò in camera a luce spenta, il gatto con lei. Saltò sul letto acciambellandosi sul cuscino.
Dalla tenda rossa filtravano leggere le luci della città.
Negli anni aveva conservato l’abilità nel ragionare, ancora consapevole di non saper parlare di sentimenti, di amore.
<<Sarei la peggiore protagonista che si sia mai vista in un romanzo rosa, nemmeno lo scrittore saprebbe come spillarmi di bocca parole ad hoc>> pensò.
Lasciò la finestra è guardò il letto, il gatto era lievemente illuminato dai bagliori che attraversavano la tenda.
A pochi centimetri da lui, rilassato tra le braccia di Morfeo, c’era una persona.
Lui l’aveva portata oltre i dubbi e le speculazioni e aveva fatto anche molto di più: le lasciava l’ultimo morso di torta, l’ultimo sorso di succo di frutta, l’ultimo pezzo di cioccolata, il pistacchio intero dentro il gelato,  l’ultimo tiro di sigaretta e pure tre quarti di spazio sul letto – e lasciava metà del rimanente al gatto –.
Lui aveva inventato un racconto: il bicchiere, che sia mezzo pieno o mezzo vuoto poco importa, a prescindere da chi se lo berrà dopo, andrà tutto bene. E lei sapeva di non avere ancora le risposte a tutte le sue domande, ma senza troppi ostacoli e complicazioni, sapeva che non c’era altro posto al mondo dove avrebbe voluto essere.

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Eternità

L’ho odiata questa vita. Giuro, l’ho odiata per un’eternità.
Uno stesso lasso temporale può essere percepito come breve o infinito, a seconda di ciò che lo accompagna.

Le novità lo accorciano, l’abitudine rende ogni ora uguale a sé stessa; ripetizione, schemi, ore dilatate,
una giornata… sembra… non finire… non finire… finire… mai.

L’alba del nuovo giorno incombeva. Aveva un fiato fetido e insostenibile. Il nuovo giorno era vuoto di sapori, pieno di ore, un susseguirsi univoco, senza un colore.
Grigio.
Un circolo vizioso.
E’ così che ho capito di odiarla per la prima volta.
Era un giorno di pioggia, no, forse era un giorno di sole, no.
So solo che quando mi sono svegliata ero talmente stanca che già sembrava sera, sul collo pesava una coperta grande come un macigno. Inquietante.
Pillole di sopportazione sul comodino, erano apparse.
Pillole di sopportazione, le mandavo giù – metaforicamente –  ogni mattina sperando che bastassero per arrivare alla notte, così da poter sparire sotto le coperte – quelle vere, fatte di stoffa –.

La mia eternità di odio verso questa vita, vissuta con stoica sopportazione e quella forza d’animo che si riconosce solo ai cavalieri (con cavallo armatura e tutto), al momento di tirare le somme ho scoperto essere durata al massimo un paio d’anni.
E che sono un paio d’anni in confronto ad un’intera esistenza?
L’ho odiata questa vita, per un’eternità talmente breve che a un certo punto ne sono uscita.
Ho smesso di odiarla, questa vita.
Non mi piacciono i circoli viziosi, preferisco la fantasia fantasiosa, fatta a modo mio.
Mi piace vedere un po’ di sole, che sia prima o dopo la pioggia poco importa, basta che ci sia.
E comunque la pioggia non dura mai per sempre.

E l’odio è raro.

Quando ci si concede precipitosamente all’odio si mette un piede in fallo già ancor prima di aver davvero mosso la gamba.
Mi rendo più chiara e leggibile: odiare qualcosa (o qualcuno) è, di fatto, un fatto impegnativo: tempo, memoria, pazienza, impegna giorni, ore, mesi, impegna la rabbia. Se qualcosa (o qualcuno) ti ha talmente rotto le palle da tendere ai limiti della sopportazione i tuoi poveri nervi… non vuoi saperne più nulla.

Mi spiego?

Piuttosto un sorriso di sfuggita “arrivederci, grazie, e a mai più”
ma odiare? Fate sul serio?
Una bella fatica.
Provare una roba del genere: se lo si fa non si può essere tanto ingenui da pensare che l’oggetto verso cui è rivolta tale sensazione non sia davvero importante.

E lei… che vi devo dire? Importante lo era. Importante lo è. Valeva la pena di sprecare tempo per odiarla.

Così ho lentamente accettato di pensarla con tanta intensità e… come dire: mi sono arresa a non odiarla più. Non è colpa sua se dobbiamo convivere – io e lei – e soprattutto quando dobbiamo conversare non posso sottrarmi, la testa è una (potrei staccarmela?). Insomma, per rompere la mia abitudine fatta di alzate mattutine con coperta e pillole, sono arrivata ad un estremo gesto, primordiale, sconsiderato. Ho iniziato a smettere di farmi domande.
Per esempio: vi siete mai chiesti quale possa essere l’effetto sull’ordine dell’universo nello scegliere se andare a mangiare la pizza o il sushi? Gelato al cioccolato o al pistacchio? Pullman o tram? Cosa può determinare questa scelta nella vita delle altre persone, o nell’equilibrio del loro organismo? O del vostro organismo? La storia del battito d’ali di una farfalla? Se oggi mi gratto la testa, cosa succederà nell’equilibrio del mio cuoio capelluto?
Complicazioni. Dubbi amletici. Rapporti interpersonali… aperti e incontrollati.
No, non lo faccio più.
La curiosa novità si è creata da quando alle domande rispondo con sarcasmo. Ho anche sviluppato senso di piacere nel riuscire a trasmettere a chi mi trovo di fronte il semplice concetto di farsi un pochino meno domande. Un pochino meno cazzate, per così dire.

Durante quell’eternità di odio e pillole di sopportazione, alla fine ho anche imparato a guardare il punto di vista diverso, da cui non posso più prescindere se voglio vedere la punta di bianco nel nero. Quell’unico – per ora –  punto di vista che ancora non avevo mai esplorato, quello che mi ha fatto dire che se la si odia, un po’, in fondo questa vita anche la si ama.
E ciò che si ama non può che essere semplice.

L’ho sempre pensato: le cose complicate – troppo complicate – richiedono energie (infinite) per poter essere amate senza renderci l’esistenza un inferno. Detto da una ingarbugliata come me…
Ho scoperto anche che, se chi ho intorno ride, rido meglio anche io.
Assurdo, ma a me piace ridere.
Forse un po’ per egoismo vorrei che anche altri non la odiassero, la vita, o che quantomeno non se la complicassero.
Può essere che io sia un po’ egoista, ma anche se non lo vedo un egoismo dannoso è pur sempre accompagnato dal giudizio.

O magari, ancora non ci ho capito nulla.

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Imparare a volare

1. Vide la luna

Introduzione

La primissima bozza di “Vide la luna” si intitolava “Quando vide la luna”. Era un racconto molto più breve, privo di dialoghi e con una sintassi ancora più semplice. Fu il primo scritto che ho potuto definire racconto, e fu anche l’input che mi servì per scoprire che ciò che scrivevo avrebbe potuto suscitare interesse negli altri; questo perché mio padre dopo averlo letto, ignaro del fatto che lo avessi scritto io, mi disse “Bello! Chi è l’autore?”. Papà è un avido lettore di libri, e questo suo commento fu per me una grande e piacevole sorpresa. 
Era il 2015. Non sapevo che questo racconto sarebbe diventato il primo di una raccolta composta da tredici parti.


Racconto

Guidava lungo la strada silenziosa senza prestare troppa attenzione a dove stesse andando. Si fermò solo quando la strada finì e si ritrovò in un grosso prato circondato da alberi intervallati di tanto in tanto da vari sentieri che si inoltravano nel bosco.
L’eccitazione per l’inizio delle ferie le aveva fatto venire voglia di una bella corsa, per questo, invece di tornare a casa, si era lasciata guidare dal senso dell’orientamento e dall’istinto, ritrovandosi in un luogo non trafficato dove poter fare movimento. Si guardò intorno per accertarsi che non ci fossero occhi indiscreti, e rapidamente si sfilò la gonna per lasciare il posto alla tuta. Una volta messe le immancabili cuffiette per la musica nelle orecchie si diresse verso le piante, notando con piacere che la vegetazione, pur infittendosi, lasciava penetrare tra le foglie pochi raggi di sole, così il tramonto le fece da compagno durante quella breve corsa in comunione con la natura.
Quando tornò alla macchina era piuttosto stanca e affamata, ma anche appagata.
Dietro le montagne, dove si era appena nascosto il sole, rimaneva solo una luce rosata e qualche nuvoletta. La notte sarebbe giunta presto, ma lei non aveva ancora voglia di rincasare, così  allestì la cena alla meglio con un pacchetto di cracker.

Non si definiva una persona sportiva, ma le piaceva mantenersi attiva: solo così riusciva a sentirsi padrona del proprio corpo. La corsa le piaceva più di ogni altra disciplina perché in essa trovava i giusti stimoli per spolverare i pensieri e lasciare la mente più leggera – per quanto la propria natura seria e riflessiva le concedesse –. Si sdraiò sull’erbetta morbida e chiuse gli occhi attendendo la notte. Quando le palpebre le liberarono nuovamente la vista il cielo era diventato di un blu tanto intenso da sembrare nero, su quella tela di ebano spuntavano i primi timidi puntini luminosi. Mentre osservava le stelle le parve di sentire odore di sigaretta, un istante dopo tra i suoi occhi e il cielo fluttuarono morbide nuvolette di fumo disperdendosi nell’aria. Si mise seduta guardandosi intorno con circospezione, perdendosi così la prima stella cadente della notte. Qualcun altro, invece, quella stella l’aveva notata. <<Stai per esprimere un desiderio?>> Parole nella notte. Trasalì. <<Chi c’è?>> chiese al buio. <<Nessuno, sono solo un vecchio di passaggio>>. La ragazza posò  gli occhi su una sagoma poco distante: un anziano signore con una barba argentea e scompigliata stava passeggiando sul prato con lo sguardo verso l’alto. Aveva le braccia indietro, con le mani dietro la schiena, e proprio in quel punto vi era un puntolino fiammeggiante: la sigaretta.

Ognuno assecondò il silenzio dell’altro, fino a che lei chiese di poter fumare insieme a lui. <<In cambio del tuo nome>> disse il vecchio. <<Alice – non fece in tempo a rispondere che lui le lancio il pacchetto, che le cadde tra le mani – ad ogni modo perché dovrei esprimere un desiderio?>> <<Non hai notato la stella cadente? E’ la prima che vedo quest’anno>> <<Sono stata distratta dal tuo arrivo, ma anche se l’avessi vista non avrei espresso alcun desiderio, non sono il tipo di persona che esprime desideri – accese la sigaretta – preferisco i fatti>>. <<Dovresti invece – si sedette accanto a lei, aspirò intensamente per due volte e rilasciò il fumo in cerchietti – essere capaci di formulare il proprio desiderio più nascosto in poche e brevi parole è una ricchezza. O se preferisci vedila come una sfida, è molto difficile riuscirci>>.
<<Le stelle cadenti sono come le lucciole: un gioco per bambini. Alla fine le lucciole non portano i soldi, ed esprimere desideri non li farà avverare>> ma lui non si arrese <<Sono proprio quei giochi che rendono i cuori più leggeri, alimentano le speranze e la fantasia, cosa c’è di male? – la osservò con la coda dell’occhio – gli occhi dei bambini sono molto più felici di quelli degli adulti>> Alice sbuffò <<Tu ed io non siamo bambini e anche se non volessimo ammetterlo sappiamo di aver perso la loro leggerezza – spense la sigaretta schiacciandola sul prato – la speranza stessa è un male, certe volte>>.
Lui accennò un sorriso guardandola sottecchi, ma lasciò che la breve discussione rimanesse sospesa nell’aria tra loro e le luci delle stelle.

Il tempo passava e il vecchio non si muoveva da lì.

<<Ehi di’ un po’, cosa vuoi?>> esordì lei.<<Niente in particolare, Alice. Mi fa piacere un po’ di compagnia… Oh! Un’altra stella cadente, guarda – un attimo di sospensione mentre seguiva la scia con lo sguardo – la solitudine: una bella cosa, non trovi anche tu? – scosse la testa come se avesse detto un’ovvietà – ma certo, se tu non sapessi apprezzarla ed accoglierla come una cara amica non saresti qui. Però a volte è piacevole condividerla con qualcuno>>.
A quel punto la ragazza si concesse qualche secondo per osservarlo meglio. L’uomo aveva gli occhi rivolti al cielo erano azzurri ghiaccio e il suo sguardo era molto acceso, quasi come se in quell’involucro anziano fosse conservata un’anima molto più giovane. Anche il modo in cui sedeva non si addiceva ad un individuo che dimostrava quanto meno ottant’anni.

Improvvisamente Alice si sentì pervasa da una bella sensazione di tranquillità e pace.
<<La solitudine è una sfida, vecchio. Può essere fredda, crudele e spietata, anche quando la si pensa confortante, calda e cristallina. Molte, troppe persone, ne sono spaventate. Oserei dire terrorizzate>> disse lei, tornando ad osservare il cielo imitando il suo compagno.
L’uomo, per la prima volta, la guardò direttamente
<<Non è la solitudine nuda e cruda che spaventa. Quello che inquieta è l’affrontare le ombre che si nascondono dietro di essa: le ombre della nostra coscienza, le paure nascoste, i fantasmi che ci seguono ogni giorno e che vengono occultati dalle chiacchiere dei luoghi affollati. Le persone che non accolgono quei fantasmi non riescono a sentire cosa essi abbiano da dire. Hai mai pensato a quanto sia difficile affrontare sfaccettature di noi stessi che abbiamo – volutamente o meno – messo in secondo piano?
Cose che abbiamo nascosto nei meandri della nostra mente?
Tutti noi abbiamo dei lati oscuri, demoni, ombre o come diavolo tu preferisca chiamarle>>.

<<Si possono avere dei demoni se la nostra vita scorre lineare e tranquilla?” chiese Alice.

<<I demoni sono parte del nostro essere, non nascono solo da brutte o cattive esperienze, da torti subiti o ferite sempre aperte. Alcuni, anche imponenti, nascono da meditazioni sfortunate, pensieri rumorosi, situazioni perse dalla memoria ma vive e nitide nel nostro subconscio, situazioni che avremmo potuto vivere o affrontare in modo diverso, sia esso migliore o peggiore>>.
Il vecchio prese il pacchetto di sigarette e lo allungò verso Alice che accettò di buon grado; qualche nuvola di fumo dopo si sentì pronta a continuare la conversazione.
<<Io credo di avere dei demoni, o almeno di averli avuti. Ci ho parlato. Mi hanno spaventata, ma alla fine ho imparato a capirli>>.
Lui rimase sorpreso, e commentò con tono ammonitore, ma non aggressivo <<Sei una ragazza giovane, Alice. Diamine, ci arrivi a 25 anni? Mi piacerebbe poterti dire che sei fortunata se hai già affrontato i tuoi demoni, ma la verità è che sei sfrontata – si fece serio – tanti anni sono trascorsi da quando avevo la tua età. In questi anni ho visto persone seguite da demoni enormi e spaventosi. Uomini e donne soffocati dalle proprie ombre, ignari della loro esistenza, o peggio, ciechi per scelta – aspirò – e te, giovane sfacciata, parli come una donna vissuta. Stai forse cercando di paragonarti all’esperienza di un vecchio? Attenta a ciò che dici e a come vivi. Sopravvalutarsi è umano e comune in tutte quelle persone che sono perseguitate da demoni che non vogliono vedere – il suo tono si addolcì – vuoi essere parte di quella cerchia di persone che un giorno crolleranno in pezzo sotto la violenza delle loro stesse azioni ed emozioni?>>.


Alice rimase abbagliata dall’enfasi di quel breve monologo.
Avrebbe voluto ribattere, mostrare a quello sconosciuto la forza di cui era dotata, l’esperienza che sapeva di avere sulle spalle nonostante la sua giovane età, ma qualcosa la bloccò.
Un piccolo allarme, dalla delicatezza di un sonaglio per bambini le risuonava dentro. In fondo, oltre l’orgoglio, sapeva che l’uomo aveva ragione.
Aveva paura.
Il vecchio la stava guardando come se sapesse perfettamente che i pensieri di lei si stavano ingarbugliando, e sorridendo, con lo sguardo di nuovo assente rivolto verso il cielo, le disse: <<Che strumento affascinante, misterioso e complicato il cervello umano. Siamo in grado di crearci e distruggerci con le nostre stesse mani solo fermandoci ad osservare un cielo stellato con una sigaretta in mano – si alzo e iniziò a passeggiare avanti indietro sull’erba – non aver paura, vivi. La vita è sempre bella, è più bella della paura>>.

La notte stava raggiungendo il suo momento più freddo, ma Alice non era sicura se i brividi che le percorsero la spina dorsale fossero figli del clima o della sensazione di disagio che l’avvolgeva. Stava per parlare, così da concludere la conversazione e congedarsi, ma ancora il vecchio parlò.

<<So cosa stai pensando. Ho insinuato in te il seme del dubbio.
Credo che anche tu sappia che verranno giorni, in futuro, in cui non basterà una corsa a rinfrescarti. Magari ti sentirai persa, conoscerai demoni che già esistono in te ma non sapevi di avere fino a quel momento. In quei giorni ricorda che hai tutta la vita davanti a te per affrontarli, ed un mondo intero in cui cercare i giusti suggerimenti per vincerli>>.

Alice si girò per ribattere, ma alle sue spalle, nell’esatto punto in cui fino ad un istante prima avrebbe giurato vi fosse il vecchio, non c’era nessuno. Aprì gli occhi e li sbatté più volte. Sopra la testa di Alice il cielo era acceso di puntini luminosi. Una stella cadente attraversò il suo campo visivo. Intorno a lei c’era solo il prato, gli alberi e la sua macchina.

Dietro una nuvola, nell’angolo più remoto del cielo, vide la luna.