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Collaborazione Biró

THE Grace OF FORGIVENESS

Consideriamo due oggetti: un paio di scarpe ed una vasca da bagno. Sarete con me nel dire che hanno ben poco in comune! Cosa fareste se questi fossero due elementi da combinare per scrivere una storia?
The Grace of forgiveness è nato proprio così, ed il titolo è un preciso e voluto gioco di parole: letteralmente in italiano significa “la grazia del perdono”, ma “Grace” è anche un nome proprio. 
Curiosi di capire cosa voglia trasmettere questo titolo, e perché parliamo di perdono insieme ad un paio di scarpe ed una vasca da bagno?

Non vi resta niente da fare, se non leggere il racconto che trovate al seguente link

The Grace of forgiveness

Così come “La Luna di Percival” questo scritto è nato dalla mia collaborazione con Biró, buona lettura!

P.S. Ringrazio di nuovo le abili mani di Paola Gentile per aver creato l’illustrazione di copertina.

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Poesie

Ira

Come il fragore del tuono
come irrequieta tempesta

era burrasca, dentro di lei.
Come versare di nuvole,

come vento era tagliente
era la furia di parole,
così lei.

Improvviso, incerto, dolce:
il sole, pacata carezza,
indugiava melanconico
al di là dell’arcobaleno.  
L’ultima lacrima di cielo
scivola sola, ed è quiete,
così lei.

Ricordo scompiglio e ardore
di ciò che era il subbuglio
e passione rovente, ira.
Ma come sole or è lei:
pacifica malinconia.

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Attimi

Osservare

È un’estate tiepida e piacevole, accompagnata da un sole che brucia nel cielo senza troppe pretese. Probabilmente quest’anno anche lui si è impigrito: imbroglia l’obbligo di levarsi ogni mattina lasciando spazio alla pioggia almeno una volta ogni due giorni.
E tu, come spesso accade, sei là seduta tra gli scogli, camuffata dalla giornata poco luminosa.
Hai indosso una gonna color sangue lunga fino ai piedi; si è inzuppata di mare sporco, ma non ci badi, perchè il tuo sguardo è perso verso l’orizzonte: indugia sui colori del cielo mentre ringrazi la sacralità di quel luogo, che riesce a nasconderti da qualsiasi occhio rischi di osservarti.
Non ti piace essere osservata, sei piuttosto un’abile osservatrice.
Gli sguardi degli altri, anche se sfuggenti, ti hanno sempre dato fastidio. Ti gettano addosso una sensazione di pressione così fastidiosa… lo so bene, solo tu sai descriverla così come la percepisci.
Per questo quando scherzando tra amici ti viene chiesto: «Se tu potessi avere un superpotere quale sarebbe?» rispondi sempre senza troppi dubbi: «L’invisibilità».
Ma certo, non è ovvio? Soltanto quella dote risulta desiderabile, utile.
Vuoi mettere leggere la mente? Un supplizio.
O vivere per sempre? La peggiore delle condanne.
Volare? Forse questo può essere interessante, ma mai, mai utile quanto essere osservatrice senza venir osservata;
muoversi per le strade senza essere scorta;
essere, senza esser giudicata.
Essere te in mezzo agli scogli, nella tua cara solitudine: senza equivoci, senza abbagli, senza fraintendimenti.

Adesso perdonerai la presunzione di quanto sto per dire: io sono un’eccezione.
Non mi limito ad osservarti: riesco a guardare i tuoi occhi. Addirittura intravedo le smorfie che si susseguono sul tuo volto mentre miri il mare: appari velata da una mite tristezza. Sotto la tua pelle scorre una sottile ma persistente malinconia, che affiora fugace anche quando sorridi, ridi, gioisci.
So che sei brava a gioire, non mi sfuggi: ti ho vista rallegrarti per l’inaspettato, per la magnificenza della natura. Ti ho vista quando hai amato, quando hai donato la felicità, quando hai mangiato il gelato ad inizio primavera, o la prima volta che hai avvicinato le labbra ad un microfono.
Da anni ti osservo dalla mia posizione privilegiata, anche se tu non lo sai. Attendo con pazienza il giorno in cui riuscirò ad inquadrarti, perché mai, in un’intera vita, sono riuscita a farlo.
Chi sei? Ho visto cambiare i paesaggi e te con loro: sei stata in montagna, al mare, al fiume, tra i laghi, sotto alle cascate; hai abbracciato praterie sconfinate, le città, le metropoli, il bosco. Hai indossato vestiti diversi, dipinto i tuoi capelli con l’arcobaleno, ed i tuoi occhi con diamanti scintillanti. Ma niente è durato tranne quella sottile, costante, impercettibile malinconia.
Oggi in riva al mare non riesco ad osservare la tua felicità.
Oh, giovane fanciulla con i capelli scompigliati dal vento e gli occhi rivolti verso il cielo, cosa vuoi di più degli occhi per vedere? Delle orecchie per sentire? Delle mani per toccare? Della labbra per baciare?
Se solo sapessi,
se solo potessi,
placherei il tuo tormento, lo giuro con la mia anima tra le dita, lo placherei.
Parlami, smetti di fingere, so che riesci ad udirmi.
Dimmi: quale volto, tra i nostri, è reale?
Ma tu taci. Osservi le onde, con loro ti agiti… e taci.
Taci come adesso che sei in riva al mare a guardare l’orizzonte, con lo sguardo presente ma allo stesso tempo assente, di chi ancora non ha capito come si smette di osservare sé stessi vivere.

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Imparare a volare

5. Il roseto

introduzione

Non voglio spendere troppe parole per introdurre questo quinto capitolo, darò solo qualche informazione: il racconto, scritto nel 2017, è inspirato ad una storia vera, molto più vecchia di me. Secondariamente è l’ultimo racconto della raccolta che tratta il tema di una relazione amorosa, ed anche l’ultimo racconto in cui i colori caldi e luminosi regnano sovrani.

Due doverosi ringraziamenti: a Francesca Cappucci, giovane professoressa ed accanita lettrice, per aver revisionato lo scritto. A makielisewin, per aver scattato e poi condiviso con me la foto che fa da copertina a questo racconto!

Racconto

Nella campagna Toscana, nel paese dove molti anni or sono fu costruita casa Riglietti, la primavera è solita iniziare sotto l’abbraccio di un tiepido sole, pronto per cullare la rinascita della natura. Ogni anno le farfalle e le api ronzano tra i peschi rosa ed i susini bianchi disseminati tutto intorno al roseto, soffermandosi di tanto in tanto a baciare un fiore. Non lontano, giusto qualche metro più in alto, svolazzano gli uccellini che ignorando il muro di cinta, planano sul salice piangente che cresce rigoglioso al centro del roseto.
Il cancello principale della proprietà appare come la cornice di un quadro perfetto: un osservatore esterno ficcando il naso oltre le sbarre, si troverebbe di fronte ad un ordinato vialetto ghiaiato adornato da statue bianche; non meno di 25 metri più avanti questo si biforca conducendo sulla sinistra alla grande ma delicata abitazione, e sulla destra, al giardino di rose perfettamente curato.
Il roseto è una vera attrazione per i compaesani, che da sempre lo ammirano per i suoi scintillanti colori: impeccabilmente rosso e verde. Nessuna rosa, infatti, ha mai avuto il permesso di crescere se di un colore diverso: così fu deciso parecchi anni fa dal Signor Riglietti, che in accordo con i giardinieri fece piantare solo rose rosse, come regalo segreto alla moglie, che le amava.
Molti anni sono sfumati da quei giorni, e Leonor Riglietti è rimasta l’unica maniacale curatrice di quei fiori. Con l’età della pensione e molto più tempo libero a disposizione, dedica tutta sé stessa a quelle rose, come se tali premure fossero rivolte anche a chi, molti anni prima, le aveva fatto dono di esse e che la vecchiaia le aveva portato via.

*

La mattina del sedici aprile gli uccellini cominciarono a cantare senza sosta sin dalle prime luci dell’alba. Si apprestavano ad accogliere il nuovo giorno svolazzando tra un ramo ed un altro, accompagnando aprile con i loro spettacoli musicali ed i volteggi coraggiosi, eseguivano impeccabilmente il compito di allietare il dì senza curarsi di tutto il resto, finendo così per svegliare Leonor Riglietti ancor prima del solito. 
Dopo aver aperto la finestra del secondo piano e spalancato le persiane, Leonor si soffermò ad osservare gli instancabili cantanti piumati e l’aria pungente del mattino le rinfrescò il viso svegliandola definitivamente.
La vita di Leonor era stata piena, lei stessa avrebbe potuto definirla una vita molto felice. Donna gentile e di innata bontà, da sempre trovava il perché nelle piccole cose e il senso della vita nell’intimità di una famiglia unita, e  nella spontanea generosità con cui donava sé stessa al prossimo.
Consumata la colazione, si avvolse nel morbido scialle di lana e, forbici da giardinaggio alla mano, si avviò verso le rose con l’obiettivo di riuscire a concludere la pota prima di sera. Mentre lavorava con pazienza e dedizione, la sua mente scelse un ricordo da farle rivivere, complice la data: era un lunedì sedici, così come quel terribile giorno di agosto di tanti anni prima era il numero sedici.

Erano gli anni ’50: all’epoca viveva con i genitori, tre fratelli e la sorella maggiore. In quegli anni le famiglie medie non conoscevano lo sfarzo, o anche la semplice condizione di benessere tipica del primo ventennio del duemila; tuttavia la famiglia di Leonor era serena e piena di aspettativa, visto ogni piccola novità portata da una nazione in forte ripresa dopo la guerra.
Tecnologia all’avanguardia, internet e videogiochi non vivevano neanche nelle fantasie dei bambini. Ma a cosa servivano? A quei tempi bastava un cioccolatino per essere felici!

«Mamma! mammaaa» il flusso di pensieri di Leonor fu interrotto da una familiare voce femminile in lontananza: era sua figlia.
«Sono nel roseto» rispose alzando il volume della voce.
Non più di un paio di minuti dopo, una bella donna sulla quarantina che le somigliava molto le diede il buongiorno con un abbraccio.
«Intorno alle rose già di prima mattina?» le chiese.
«Oh sì, mi sono alzata molto presto. In questa stagione hanno bisogno di cure meticolose, sai?»
«Ancora non capisco perché non lasci che il giardiniere ti aiuti, almeno una volta a settimana!» 
«Non sono mica così vecchia. Lui ha tutti gli alberi da frutto da curare, con le rose posso cavarmela da sola» e, detto questo, tornò a portare l’attenzione sui rametti secchi.
«Questo giardino è enorme, mamma – disse la figlia con tono di resa, ben consapevole che non sarebbe servito a niente insistere – hai un altro paio di forbici da pota? Vorrei aiutarti. Almeno io posso?»
Leonor sorrise, e come se si fosse aspettata quella domanda, estrasse dalla tasca del suo ampio grembiule l’utensile.  
Madre e figlia trascorsero qualche minuto parlando dell’andamento scolastico dei nipoti e del pranzo di Pasqua imminente, ma in poco tempo la mente di Leonor tornò al ricordo di quel sedici agosto. Non potendolo più tacere si rivolse alla figlia, chiedendole se per caso avesse mai udito il racconto di quel giorno.
Ambra si soffermò a pensare per qualche istante, poi delusa disse: «No, non che io ricordi, mamma».
«Vieni – disse mettendo in tasca le forbici – prendiamoci una pausa» e si incamminò verso la panchina ombreggiata dal salice piangente. Una volta comoda, con lo sguardo verso l’orizzonte, Leonor iniziò a raccontare.
«Era proprio una bella giornata di sole, come questa. All’epoca frequentavo un ragazzo da qualche tempo. Bada bene: non frequentavo – sottolineò la parola – come fanno quei giovani di ora senza ritegno – scosse una mano e strizzò gli occhi come a scacciare il pensiero – andammo al cinema qualche volta, rigorosamente accompagnati da mia sorella, tua zia.
Lui si spostava molto in bicicletta, e innumerevoli volte si fermò davanti alla mia abitazione per parlare con i miei fratelli. Era una scusa bella e buona: sono sempre stata consapevole che aspettava semplicemente che io tornassi da lavoro.
Era proprio un bel giovanotto, sai? Biondo come un angelo e con gli occhi azzurri, quasi grigi. Ricordo molto bene anche il suo giovane sorriso: era ammaliante.
La nostra frequentazione – scandì ancora la parola – non fu una cosa semplice: lui era claudicante e a quei tempi un piccolo paesino come il mio non brillava certo di mentalità aperta.
La sua condizione fu causata da un incidente domestico accaduto quando aveva solo pochi mesi: le ossa della sua gamba si rovinarono completamente. I suoi genitori raggiunsero l’ospedale con troppe ore di ritardo, ed i medici non riuscirono a curarlo. Ci pensi? Al giorno d’oggi probabilmente avrebbero risolto tutto senza complicazioni, grazie agli innumerevoli mezzi di trasporto e alla vicinanza delle strutture ospedaliere».
Si soffermò un attimo sospirando. La figlia la osservò senza azzardare commenti, fino a che non riprese a raccontare.
«Le persone non si curavano di celare commenti di sdegno. Più volte ho udito bisbigliare cattiverie alle mie e alle sue spalle. Dicevano che se ci fossimo sposati i nostri figli sarebbero stati storpi, come lui. Non capirò mai come si possa essere così crudeli. Se avessi potuto scegliere, non avrei voluto udire quelle parole, e soprattutto non avrei voluto che lui sentisse.
La mia istruzione era misera e figuriamoci se conoscevo la medicina, ma nel profondo sapevo che lui era perfettamente normale. Quelli non erano altro che pregiudizi inaccettabili, ma a quanto pare giudicare una persona solo dal suo aspetto esteriore era un’abitudine radicata».
«Ma io quell’uomo l’ho conosciuto?» la interruppe Ambra con un velo di consapevolezza.
«Fammi finire prima di commentare. Dunque, stavo dicendo… ah, sì il  sedici agosto, io e questo giovane uomo avevamo un altro appuntamento al cinema. Fu Una giornata davvero piacevole, almeno fino a quando lui non mi fece un regalo. Negli occhi ho ancora quelle immagini, come se fosse accaduto ieri: dalla tasca estrasse una scatolina marrone e al suo interno c’era un anello. Non portava incastonata una pietra preziosa, ma era bellissimo. In quegli anni non erano possibili tali spese, bisognava pensare a far mangiare la famiglia prima di comprare anelli! Ero ancora ammutolita dal gesto, quando aggiunse che voleva portarmi a conoscere i suoi genitori – Leonor scosse la testa – ricordo ancora che il panico mi strinse il petto.
In pochi minuti lo congedai con una scusa, e con tua zia al mio fianco corsi verso casa. Mentre lei cercava di capire cosa mi fosse successo, dalla mia bocca usciva un fiume sconnesso di parole, condite da ansie e paure, ovviamente nessuna di queste era minimamente legata alla sua condizione di salute, no: ero terribilmente giovane e insicura, figlia mia. Fragile, terrorizzata dal dovermi legare davanti alla legge e davanti a Dio; accettare il regalo e la sua proposta per me era pari ad una promessa matrimoniale: come potevo sapere se lui era l’uomo che volevo per sempre al mio fianco? Così, poche ore dopo il cinema, in seguito a fiumi di lacrime versate, percorsi a piedi i pochi chilometri fino a casa sua e lo lasciai».
Leonor si interruppe per qualche secondo, così sua figlia, con sguardo confuso e divertito, ne approfittò per intervenire:
«Beh se per te è stato tremendo, figuriamoci per lui!»
Leonor scosse la testa sorridendo «Poche volte nella vita sono stata male come quel giorno ed i giorni successivi. Ero consumata dall’angoscia, dal senso di inadeguatezza. Gli volevo un bene che veniva dal profondo della mia anima, ma avevo così tanta paura delle scelte per il futuro. Ormai ero una giovane donna, ma mi sentivo poco più che una ragazzina in preda al panico di affrontare i vent’anni. Ogni mattina mi alzavo dal letto con il terrore di cosa sarebbe successo da lì all’ora in cui mi sarei coricata nuovamente, come se il solo essere sveglia potesse sopraffarmi. La mia testa era un turbinio di pensieri ed emozioni: quante giornate passai a piangere con tua zia, che in parte mi consolava e in parte mi sgridava.
Con il passare dei giorni mi resi conto che era la vita in sé a spaventarmi, non l’avere un uomo accanto. Realizzai che era per quello che lo avevo lasciato: non volevo condizionare con i miei timori un’altra vita. Non ero così egoista».
Leonor si interruppe e con un passo piuttosto svelto per la sua età, si diresse verso i fiori. Con un gesto rapido tagliò a metà ramo la rosa più bella di tutte.
«Perché?» le chiese Ambra, che l’aveva raggiunta. Invece che risponderle Leonor le chiese se avesse voglia di accompagnarla al cimitero.
Madre e figlia raggiunsero la macchina, e pochi minuti dopo varcarono il cancello cigolante del camposanto di paese. La primavera era esplosa anche tra i marmi bianchi e neri, che erano stati adornati da fiori di tutti i colori. 
Le due donne si fermarono di fronte ad una tomba di marmo chiaro, sopra la quale una foto ritraeva un uomo dal sorriso smagliante e due profondi occhi azzurri, quasi grigi.
A quel punto Leonor riprese il racconto da dove lo aveva interrotto: «Dall’orrendo sedici agosto per un po’ di tempo non ci incrociammo. Sai, senza tecnologia era facile evitarsi. Fino ad un giorno, in cui passò davanti casa mia con la sua bicicletta. Stavo per scappare in casa, ma mi vide, e non volendo essere scortese mi fermai a salutarlo: parlammo per ore. Da quel giorno le sue “casuali” gite di fronte a casa mia divennero sempre più frequenti. Spesso lo scorgevo ridere insieme ai i miei fratelli che lo avevano molto a cuore, praticamente erano amici. Alla fine mi arresi: smisi di evitarlo, e conobbi sua madre, poi tutta la sua famiglia.
Tre mesi dopo eravamo sposati. Ero insicura certo, ma lasciai andare le paure più grandi, decisa di imparare a conviverci».
«Scelta avventata» commentò Ambra.
«Forse, ma da quel giorno non ci siamo mai lasciati».
Leonor si voltò verso la figlia porgendole la rosa che teneva ancora stretta in mano. Ambra si chinò e la adagiò a fianco della foto che ritraeva l’uomo dagli occhi azzurri. 
«In questa foto il suo viso è segnato dal tempo, ma è bello come quando aveva vent’anni. Il corpo è debole, il tempo non è misericordioso: la malattia lo ha spento troppo presto».
Ambra si alzò in piedi, e mettendo una mano sul petto di sua madre le disse: «Papà non ci ha lasciato davvero, vive qui. Vive nelle rose del nostro giardino, vive nel ricordo. Sarà eterno fintantoché ci sarà qualcuno a ricordare l’amore che ci ha lasciato quando era in vita».
Leonor le sorrise e spostò lo sguardo verso il cielo, mentre con le dita accarezzava quell’anello che da più di cinquant’anni le abbracciava il dito.  

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novellequotidiane

Ti racconto cosa direi alla persona che ero 10 anni fa

Partecipo in ritardo (ma con molto piacere) a #NovelleQuotidiane29 : ecco un altro minuscolo racconto.


Duemiladieci. Hai sedici anni Alice, nella tua testa già frullano tutti quei pensieri da grande, e tu non sai di essere ancora una bambina. Tutti quei sogni e le mille fantasie per te non sono qualcosa da infante: sei semplicemente te stessa – almeno fino a quando qualcuno non ti farà sentire sciocca per questo –.
Sei orgogliosa e testarda e pur non sapendo dove alberghi il tuo valore morale, ti batti per difendere uno strano concetto di femminilità e femminismo che senti appartenerti; con un pizzico di arroganza sdegni quella tua profonda sensibilità: la rifiuti additandola come la tua più grande debolezza.
Non accetti di sbagliare, non vuoi aver torto: per te gli errori sono giudizi sulla tua personalità, non sul singolo evento.
Quanti errori hai commesso, Alice, credendo che la vita debba essere affrontata con orgoglio e rabbia, senza emozioni dolci e pulite, senza permetterti di essere debole agli occhi degli altri.
Perché per te il punto fondamentale è questo: apparire forte, intangibile.
Ed è proprio per questo che il tuo essere accusa i colpi: la tua essenza, inconsapevolmente, sta iniziando a cedere.  La tua anima verrà ferita, la tua mente cadrà preda di obblighi nati dalla forza della psicologia inversa.
Oh giovane Alice, se tu solo sapessi quanto è puro e semplice essere solo sé stessi, anche con la tua fragile sensibilità.  Con gli anni scoprirai proprio in essa la tua più grande forza: affiancherà quella innata curiosità custodita in te e l’orgoglio, creando l’ambizione.   
Potrei darti mille consigli, elencare cento situazioni che dovresti  affrontare diversamente, così da semplificarti la strada verso l’età adulta. Ma ti conosco troppo bene, so che dall’alto dei tuoi sedici anni non accetteresti alcun consiglio, e forse è giusto così.
Ti comprendo sai: la testardaggine la conserverai oltre i vent’anni. Quali siano le esperienze che affronterai ti porteranno ad essere chi sei: puoi scegliere di prendere il buono anche da ciò che ti causerà dolore. Ti prego, non scordarlo mai.

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Collaborazione Biró

La Luna di Percival

Quest’oggi, con tantissimo entusiasmo, mi appresto a comunicarvi che un mio nuovo racconto è online.
«Dove – chiederete voi – dato che qui non c’è niente?»
Semplicissimo! Lo trovate al link che vi lascio qui sotto ⇓

La luna di Percival – Biró

Poco più di un mese fa, grazie ad instgram, ho trovato il sito Biró (precedentemente Finestre di Zucchero) ed ho partecipato ad un loro contest di scrittura, che non ho vinto. Poco male: perché ho avuto molto di più. Mi hanno chiesto di scrivere un racconto a tema libero, cosa che non mi aspettavo per niente.
«Addio – mi sono detta – tema libero… non combinerò mai nulla!» ed invece mi sono impegnata, ho provato a viaggiare con la fantasia ed è nato questo racconto molto dolce, delicato, ma non per questo privo di un profondo significato.
L’immagine di copertina è stata creata appositamente per il racconto dalle abili mani di Paola, su instagram come @gentile_paola_87, con il bellissimo stile del sito Finestre di Zucchero, che vi invito a visitare nella sua interezza!

Non mi resta che sperare di potervi fare compagnia ancora per qualche minuto e augurarvi buona lettura!

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Riccioli, fiocchi rosa e innocenza

Finalmente sono riuscita a mettere un punto al primo capitolo della nuova sfida che mi sono lanciata: raccontare le vostre storie. Su instagram, (@alicendemon) non molto tempo fa, ho chiesto se qualcuno voleva raccontare tramite i miei scritti episodi emotivamente forti e significativi. Ognuna delle risposte che ho ricevuto rappresenta una piccola sfida per me, ma anche per chi ha deciso di aprirsi.
Non voglio anticipare niente del racconto “Riccioli, fiocchi rosa ed innocenza“, tranne una singola cosa doverosa: ciò che leggerete sotto è tratto da una storia vera, alcune parole potrebbero urtare la sensibilità di chi non è emotivamente stabile e consapevole. Invito chiunque altro alla lettura e alla condivisione. Di certi argomenti non si parla mai a sufficienza. 


Camminava spedita per le vie di Londra. La sua destinazione era uno dei tanti meravigliosi parchi che costellavano la città, dove aveva appuntamento con una sua cara amica. Noemi – questo era il suo nome –era tanto abituata al caos di quella metropoli colorata e poliedrica che fare lo slalom tra i passanti le veniva spontaneo quasi quanto respirare.
Anche se la giornata era iniziata con grigiore, da poco aveva smesso di piovere ed un timido solicello era spuntato all’orizzonte, dietro il Big Ban.
Con la coda dell’occhio scorse qualcosa che attirò la sua attenzione, tanto da farla fermare per osservare.
Dall’altro lato della strada, sopra la porta di un pub, dei fiorellini viola e rosa facevano capolino da un vaso appeso. Una bambina, attratta dai colori, si era fermata tirando la mano della persona che era con lei: un uomo ben oltre la mezza età.
Noemi, anche adesso che era diventata una donna, ogni tanto rimaneva catturata da immagini che richiamavano ricordi. Stralci di un passato che talvolta non sembrava appartenerle, ma che portava inciso sulla pelle, sotto quel tatuaggio sottile. Insieme ad esso, era viva la consapevolezza che anche se la sua coscienza poteva dormire a comando, certi avvenimenti sarebbero stati per sempre indelebili.
Bastava poco: una conversazione udita di sfuggita, la pagina di un libro, la scena di un film… o una bambina ricciolina di fronte a lei, per mano ad un uomo che, si augurava, fosse suo nonno.
La piccola non poteva avere più di dieci anni, era girata quasi di spalle e anche se il suo profilo era semi-nascosto dietro i capelli, Noemi poteva scorgerne la bellezza.
Avete presente i ricciolini piccoli piccoli, precisi e ordinati sulla testa di una bambina? Una vera rarità, in un mondo costituito perlopiù da piccole lisce od ondulate. La ricciolina aveva anche due fiocchetti rosa in testa ad incorniciare quella sua rara e preziosa caratteristica.
Anche Noemi, che osservava dall’altro lato della strada, era stata una bambina così.
Gli stessi capelli riccioli ed ordinati, anche ora che era cresciuta, le scappavano da sotto il cappello.
 “Ogni riccio un capriccio”.
Se lo aveste detto alla lei adolescente, in mezzo alle sue ribellioni, vi avrebbe risposto che si, conosceva i suoi capricci. Freddamente consapevole di tutti i suoi errori, che commetteva con un piacere quasi autolesionista. 
Era stata una bambina capricciosa, qualcosa dentro di lei non si risparmiava mai di ricordarglielo, ma era anche stata una bambina come tante: desiderosa di amore, di condivisione, di comprensione emotiva. Desiderosa di una o più guide tra gli adulti, per affrontare gli anni che nel susseguirsi aprivano sempre più porte a meccanismi a lei sconosciuti.
Per una volta ancora, quella che ora era una giovane donna, camminando per le strade di Londra in una fredda primavera, con la mente era volata verso ricordi che per anni le avevano destato paura e vergogna.
Quante volte aveva sbagliato nella vita? Forse era nata sbagliata?
Quando aveva 9 anni se lo era chiesto spesso, chi sa se con ingenuità o disperazione.
Era passato al massimo qualche secondo da che aveva ripreso la strada per raggiungere Hyde Park, quando una voce la riscosse dai suoi pensieri.
«Beccata! – a pochi centimetri dal suo volto era comparso l’ampio sorriso di Alice – guarda che assurda casualità! Sono risalita su dalla fermata della metropolitana proprio nel momento in cui stavi passando qui davanti».
Il sorriso della ragazza, però, si spense un poco.
«Tutto a posto Noemi?».
Lei si riscosse in un istante «Si, certo. Mi hai solo colta alla sprovvista, ero immersa nei miei pensieri. Proseguiamo insieme?».
Così si incamminarono verso il parco. Trovarono una panchina libera riscaldata dal sole dove sedettero a sorseggiare con calma due caffè americani.
«Alice, ricordi quella storia di cui ti parlai qualche anno fa? Quando avevo nove anni…».
«Come potrei dimenticare?» le rispose subito.

Era accaduto tanti anni prima. All’epoca, dopo la scuola, Noemi frequentava una palestra dove faceva ginnastica artistica con tante altre bambine come lei. Le piaceva quella palestra, la teneva a distanza da situazioni che nella sua casetta le stavano strette.
Noemi era stata una bambina bellissima. Sembrava molto più grande della sua età, tanto che spesso veniva proprio trattata come se avesse qualche anno in più: inorgoglita dall’essere considerata matura, non poteva capirne i lati negativi.
Nella palestra che frequentava c’erano tante persone gentili, come le insegnanti ed il custode.
Lui, in particolare, era il più affabile di tutti: le sorrideva sempre, ogni tanto si avvicinava e le faceva dei dolci complimenti sussurrando al suo orecchio. A lui piacevano tanto i suoi ricciolini.
Noemi, adesso che era diventata una donna, non ricordava cosa succedeva nella sua mente infantile ed ingenua quando lui le offriva quei gesti.
Avete presente la sensazione che lasciano i sogni vividi?
Quelli talmente reali che al risveglio lasciano il bisogno di alcuni secondi di lucidità prima di poter capire dove si è?
Lei, un giorno, si svegliò da un sogno di quel tipo, ma con i lati ribaltati: fu costretta a risvegliarsi dalla realtà nella realtà.
Quelle mani, le mani di quella persona gentile, correvano veloci in posti che non avrebbe osato dire.
«Va tutto bene, non è nulla – era una voce sincera, dolce – no, no… non ti agitare, non essere capricciosa, altrimenti diventa più difficile».
Era la voce dolce che aveva imparato a conoscere, forse anche con un po’ di affetto.
La prese per la nuca con forza prima che la sua lingua si facesse spazio nella sua bocca.   
Trascorse un tempo impossibile da misurare, dilatato oltre le percezioni dell’essere umano poi all’improvviso si svegliò dalla realtà nella realtà e per ritrovarsi a raccontare quel sogno, che un sogno non era.
Si scorse ad essere, per la prima volta, una priorità in quella caotica casa dove di crucci già troppi ve ne erano: d’un tratto era diventata il problema centrale.
Tutti gli avvenimenti si susseguirono con una rapidità surreale: le reazioni della famiglia, le reazioni legali, le sue emozioni. Sensazioni attribuibili ad un sogno, ma con lo schiaffo della realtà che la allontanava da sé stessa, dal suo corpo, che suo più non era.

«Suo. Suo di chi? »

«Io? Chi sono io? Io sono una bugiarda».

«Me lo sono cercato perché sono provocante».

«No. Sono solo una bambina fantasiosa e capricciosa. Non è successo proprio niente».

«E’ tutto finto. Ma cosa è finito, il senso di questa esistenza che mi è stata imposta, che non ho scelto? Il senso di questa vita da cui ho dovuto farmi scudo con le mie braccia?»

«Dovrà pur esserci – disse Alice ricordando l’episodio –  un motivo se nel mondo dei grandi si entra a piccoli passi. Babbo Natale è reale fino a che un bambino non è pronto a capire autonomamente la fantasiosa invenzione. Nessuno ci costringe a smettere di crederci fino a che non capiamo da soli la dolce bugia. Questa lieve forma di rispetto per te è venuta meno in quell’occasione.
Funziona così questa società sbagliata: il rispetto per l’età esiste fino a che va tutto bene, ma quando un evento sconvolge una vita la priorità perde ogni dignità e si pretende da una fanciullina la maturità di un uomo.
Chi sa perché nessuno vede questa mancanza di rispetto.
Hanno fatto piovere su di te bambina domande violente come i temporali invernali, pretendendo risposte il più simile possibili a ciò che è facile e non a ciò che è giusto».
«Chi sa come mai è così difficile smascherare un lupo vestito da agnello» rispose Noemi con una punta di fastidio nella voce.
«Forse perché il lupo è furbo, è ingegnoso, ed è terribilmente esperto. Sa quello che fa. Quell’uomo non ha dovuto rispondere agli interrogatori crescendo in un solo giorno. Lui non era intimorito dalla polizia, dalla psicologa o dal giudice. Lui adulto lo era già.
Una domanda mi sorge spontanea: chi sa se quella con te era la prima volta, se già aveva abusato di altre bambine, o se… o se lo avrà fatto di nuovo» rabbrividì.
«Nell’armadio non deve possedere molti vestiti, saranno più che altro scheletri. E costumi da agnello. Da dietro a quelle maschere riderà nel pensare a mia madre in lacrime il giorno che entrando nella mia stanza mi disse “Abbiamo perso, hanno dato ragione a lui”.
Non oso neanche provare ad illudermi che non lo abbia fatto di nuovo. Io non sono un caso raro, queste cose succedono con una spaventosa frequenza, alimentate dal fatto che spesso sono taciute da parte di chi le ha subite. Per vergogna, per paura, o perché, come è successo a me, non si viene creduti. Bambini e bambine diventano adulti e poi anziani, in molti arriveranno al loro ultimo respiro senza riuscire mai a tirare tutto questo fuori dalla loro testa».
Alice la osservò con intensità, come a chiedersi se quello che stava per dire fosse un passo troppo lungo o meno.
«Tu però adesso ne parli Noemi, lo condividi, e credo che condividerlo sia uno strumento potente per la consapevolezza: sia per chi cerca di eclissare la realtà che ha vissuto, ma anche per chi non ha mai sentito parlare di questi episodi. Ne parli con una sorta di naturalezza che, ti dico con il cuore, ti rende onore. Ti avvolge di dignità e di coraggio. Hai imparato a conviverci».
«Conviverci no, se conviverci vuol dire dimenticare – disse con enorme consapevolezza – ci ho fatto pace. È accaduto, non ho potere su ciò che successe quel giorno: ha fatto di me quella che sono adesso, mi ha forgiata, non posso dimenticarlo. Guarderò sempre il mondo intorno a me con un occhio diverso, osservando i pericoli che, chi ha avuto la fortuna di non vivere questa esperienza, probabilmente non noterà mai. Non voglio fingere, oppure dimenticare l’esistenza di persone come quest’uomo; la memoria, come hai suggerito anche te, deve diventare uno strumento di condivisione».
«Anche per aiutare chi, a differenza tua, non è riuscito ad esorcizzare ciò che gli è successo» concluse Alice. 
Cadde un silenzio sereno, privo di disagio. 
Il sole aveva iniziato a battere insistentemente sul laghetto che Noemi ed Alice avevano di fronte, ormai il grande Hyde Park era asciutto e gremito di passanti.
Alice si guardò intorno rimuginando su quanto si erano appena dette: quel giorno c’erano tante persone nel parco: chi di loro guardava il mondo con gli stessi occhi di Noemi?
Chi sa se tra quelle donne, uomini e bambini c’era qualcuno che si era arreso a condurre una vita fatta di realtà nascoste, o se qualcuno di loro era come il custode nella palestra che Noemi frequentava da bambina.
Le amiche si alzarono a passeggiare sotto i raggi del sole e nessuna delle due, almeno per quel pomeriggio, menzionò più l’argomento. Ma lasciandosi il laghetto alla spalle, entrambe si chiesero perché anche nell’epoca moderna fosse così semplice, seppur non giusto, lasciar cadere – legalmente – i diritti di un bambino.

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Ti racconto dove trovo la mia libertà

Introduzione

Oggi ho deciso di aggregarmi nuovamente all’iniziativa instagram #NovelleQutidiane. Giunti al diciottesimo giorno dell’iniziativa, ho cercato di contrarre al massimo i miei pensieri il merito a “dove trovo la mia libertà”, per ottenere un minuscolo spunto. In realtà potrei riempire pagine e pagine di pensieri in merito, chi sa, magari un giorno lo farò!
Visto che questa volta mi sono ritrovata a scrivere senza averci pensato troppo su, sono andata in cerca di aiuto per la compagnia visiva al mio scritto: la mia cara amica (artista, psicologa e modella) Giulia Trio ha improvvisato questa illustrazione. 


Racconto 

Un uccellino. Un pettirosso. Adoro i pettirossi: sono così piccoli, colorati ed impossibili da acchiappare. Ogni tanto tra un saltello ed un altro, mentre sono in cerca di briciole, gonfiano il petto, poi volano via chi sa in quale direzione. Liberi di scegliere da quale vento farsi trasportare.
Forse per un uccellino tanto basta per definire il concetto di libertà.
Loro non hanno regole scritte, un codice etico, una morale da cui trarre senso di colpa.
Per gli uomini è diverso. Se ci limitassimo a pensarci liberi nel momento in cui possiamo decidere quale strada percorrere, non incorreremo forse in un errore di valutazione?
Forse sottovalutiamo il concetto di libertà, lo riduciamo a qualcosa di esterno da noi. Sono convinta che se lo chiedeste in giro, il commento sarebbe unanime: “amo le mie libertà, non sopporto di sentirmi in gabbia, nessuno può decidere per me, nessuno può incatenarmi”.
Come da vocabolario: libertà è disporre della propria persona senza coercizioni fisiche o materiali.
Ciò è lecito e reale, ma non possiamo rischiare di dimenticare anche l’altra faccia di questa medaglia.
Io ammiro l’uccellino, ma alla sua emancipazione aggiungo: libertà è tale, quando nell’assenza di impedimenti materiali, si può decidere di appropriarsi di qualsiasi sfaccettatura ci componga come essere umani, slegandoci dal timore di non rispettare dei canoni, senza il turbamento creato dall’aspettativa, o più semplicemente, senza la paura di non piacere agli altri.
Sii libero: vieni a patti con le scelte fatte e con quelle che farai, all’interno di ciò che è lecito, puoi andare oltre ai concetti di giusto e sbagliato che hai imparato fino ad ora.
Quando ero adolescente, per tanti anni sono stata convinta che fossero gli altri a privarmi della mia libertà.
Il tempo mi ha insegnato che l’unica gabbia dorata che mi imprigionava era quella della mia mente.
Così ho scoperto la chiave: semplicemente volendo, potevo diventare come quel pettirosso, accettare di essere me stessa senza mezzi termini, senza paure, senza bisogno di giustificazioni.

Un giorno ho trovato le mie ali: una penna ed un foglio bianco.
La scrittura… la mia libertà.

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Imparare a volare

4. Hic et Nunc

Introduzione

Hic et Nunc è nato nel 2016 dopo almeno un paio di mesi di lavoro. Scrivevo al tavolo di sala, nella casa a Pisa che condividevo con tre coinquiline al tempo dell’università.
Non sono mai stata molto brava a vivere l’attimo. Da adolescente ero letteralmente ossessionata da questo concetto. Mi dissi che se avessi scritto di un certo tipo di atteggiamento sarei forse riuscita ad assumerlo anche nella vita di tutti i giorni: volli quindi sforzarmi di raccontare con un certo modo di pensare. Direi di essere davvero migliorata negli anni. 

Ci tengo a dire che questa volta, per quanto riguarda l’immagine di accompagnamento al testo, ci siamo proprio superati grazie alla bravura e alla gentilezza del fotografo William Perugini, vi lascio di seguito i suoi profili social.
Facebook: William Perugini Potographer
Instagram:@williamperugini


Racconto

Stava sfogliando, rigirandoselo tra le mani, un piccolo quaderno vecchio e sgualcito. La prima pagina indossava un appunto scolorito, che recitava:

“Il cielo è azzurro come non lo si vede da tempo ed il sole è caldo. Oggi è una di quelle giornate che mi ricorda come l’inverno non possa durare per sempre, anche se nel momento in cui l’abbraccio dal freddo si chiude su di te, dimentichi di quanto possa essere bella la primavera.
Giornate come questa sono fatte per asciugare le pozzanghere piene di fango, per lasciar fiorire i peschi; sono la speranza dei fiori, la garanzia che un nuovo giorno può portare qualcosa di nuovo e fresco anche se, solo a pochi metri di distanza, decine di alberi hanno ancora i rami secchi.
E negli occhi delle persone si legge la stessa speranza dei fiori. Occhi grandi o piccoli, luminosi o spenti: ognuno porta una luce diversa in sé, una luce che parla meglio di qualsiasi bocca.
L’inverno non può durare per sempre, anche quando marzo si nasconderà dietro le nuvole, sono sicura che ci saranno altre giornate come questa.
Anche se l’inverno appena trascorso è stato molto più lungo di qualche mese, e ricoperto da una fredda lastra di ghiaccio, adesso so che non potevo arrendermi al gelo.
Ho sempre combattuto contro la vita, adesso è il momento di iniziare a combattere per la vita. Per i giorni di primavera. Per eliminare la lastra di ghiaccio”.

C’era una ragazza. Se ne stava seduta ad osservare le persone che passeggiavano lungo il Tamigi illuminato, raggomitolata su una panchina come un gatto soriano troppo stanco per inseguire le lucertole.
Tra le mani teneva un bicchiere di carta. Lo portava quasi fosse un mazzo di fiori che però, al posto dei petali, aveva del caffè americano fumante. Pochi minuti prima la tasca interna di quella borsa che da così tanti anni non usava le aveva riservato una sorpresa: il quaderno che un tempo accoglieva le sue confidenze e le sue riflessioni.
Aveva sorriso nel leggere quanto riportato in quella pagina, ricordando benissimo il giorno in cui aveva reso le sue riflessioni indelebili: era una primavera di alcuni anni prima, un periodo della sua vita in cui aveva iniziato a chiedersi cosa volesse dire crescere e affrontare la vita. Giorni in cui il suo cuore aveva subito delle perdite grandi, accompagnate da piccole ferite, anche se al tempo sembravano tanto impossibili da sanare.
Quelli erano i giorni in cui per la prima volta aveva deciso che avrebbe imparato ad aprire il suo cuore, a dimostrare l’affetto e a smettere di nascondersi dietro ai muri che aveva così faticosamente costruito.

Con quei ricordi le sue labbra si incurvarono ancora di più ed il sorriso raggiunse gli occhi.
Alzò lo sguardo dal quaderno per osservare intorno a lei. La strada era affollata come non mai, la palla infuocata lassù nel cielo aveva richiamato tutti: uomini, donne, bambini, ragazzi. Un turbinio di colori e di etnie. Sembrava di assistere ad una sfilata organizzata da un folle tanto erano variopinte le anime che passeggiavano lungo il Tamigi.
La vera attrazione per lei non erano tanto i vestiti od i capelli colorati dei rockettari, ma gli sguardi. Ogni singolo che muoveva i suoi passi davanti alla ragazza, aveva nelle iridi uno scintillio diverso, unico nel suo genere. Si ritrovò rapita dal notare che non tutti i bambini avevano occhi felici, non tutte le coppie si scambiavano gli stessi raggi di affetto, e che qualche solitario, come lei sorrideva perso ad osservare il sole.

Fu forse quel ricordo ritrovato sul quaderno, oppure il chiedersi quante storie potessero raccontare le persone che le camminavano davanti, o magari l’atmosfera nella sua interezza: iniziò a riflettere su dove si trovava, ma non fisicamente. «Guarda, Alice – si disse – guarda quanti passi hai già mosso nella vita adulta, quanto sei stata brava nel fare tesoro di tutte le tue esperienze».
Sfide da affrontare, traguardi da raggiungere, segni indelebili dentro di lei lasciati da episodi vissuti.
Tante battaglie era fiera di poter dire di averle vinte da sola, mentre per tante altre era stata indispensabile la presenza di persone accanto.
Ricordava il nero della rabbia, il bianco della disperazione, l’indefinito colore del dispiacere.
Ricordava l’arcobaleno di quando aveva offerto il suo cuore per la prima volta, ma ricordava anche la cecità scaturita quando quello, invece di essere accudito, le era stato strappato di mano con forza, usato come uno stupido gioco e poi calpestato.
Ricordava di come questo si fosse irrigidito, indurito come un sasso per poi sgretolarsi come creta troppo secca.
Ricordava di aver letto, chi sa dove e chi sa quando, di come le emozioni combattono nella testa delle persone per decretare cosa sia giusto e dignitoso, cosa sbagliato.
Nel vorticoso miscuglio di immagini che si susseguirono nella sua testa, nessuna di esse le richiamò emozioni sufficientemente forti da accendere la sua attenzione, tranne una leggera consapevolezza. Ad essa era legato anche quel sorriso che si era acceso sul suo volto: nessuna delle persone che l’avevano ferita era mai stata la sua prima scelta, e ciò adesso, aveva dannatamente senso.
Quali fossero state le gioie e i dolori, le piccole e grandi esperienze vissute fino a quel momento, era stata condotta a raccogliere i pezzi del suo cuore, che rovinati o meno, adesso sentiva essere al loro posto. Il prima aveva ormai tutta un’altra importanza. Le sensazioni di malinconia e le domande su come avrebbe dovuto comportarsi per tagliare fuori il rischio di soffrire di nuovo non l’attanagliavano più. Non si chiedeva cosa le riservasse il domani.
Era troppo presa dal vivere l’oggi.

Il qui.

L’adesso.

La strada che aveva percorso le aveva regalato la compagnia di due occhi che conosceva da molto tempo, ma che aveva sempre osservato da lontano cercando di accudirli con premura, senza impulso, affascinata dalla loro bellezza. Gli occhi di quella persona che in quel momento le camminava a fianco, tenendola per mano.

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Ti racconto la mia città natale

Introduzione

Anche oggi partecipo all’iniziativa di @margherita.tercon su instagram. #NovelleQuotidiane4 ha come argomento “Ti racconto la mia città natale”. Io non sono nata in una città, ma in un piccolo paese.
Se sei arrivato qui da instagram, poco sotto troverai la versione integrale di ciò che hai letto sotto il mio ultimo post. Buona lettura!


Il canto incessante del gallo e degli uccellini.
Il profumo del sole sull’asfalto che si mescolava a quello di acetone. Profumo di focaccia, pizza, profumo di brioches.
A quel tempo la mia vita era circoscritta al mio piccolo paese.
In realtà non possiedo molti ricordi nitidi relativi all’infanzia, la mia mente ricorda piuttosto tramite i sensi: questi mi riportano alle giornate estive, quando i miei lavoravano, e la casa dei nonni era anche la mia casa.
Mi svegliavo nello stretto lettino di fronte alla finestra che si apriva – e si apre tutt’oggi – faccia a faccia con la fabbrica di souvenir dei miei zii. Ad intervallare i due edifici un fazzoletto di asfalto, qualche auto ed il furgone.
Aprivo gli occhi (relativamente) presto da bambina, giusto in tempo per sentire il clacson del furgoncino del panaio a richiamare l’attenzione del vicinato.
Erano sempre le 9:00 in punto: correvo in fabbrica dalla nonna per prendere gli spiccioli e l’odore dell’acetone mi penetrava le narici. Il nonno era sempre immancabilmente in mezzo alla polvere, a molare le statuine, quelle stesse che la nonna tingeva.
Scendevo le scalette a rotta di collo quasi senza notare gli zii che mi dicevano di andare piano.
In un attimo mi ritrovato di fronte a tutte le leccornie che aveva portato il panaio. Non sapevo mai cosa acquistare – oltre al pane per la nonna, ovviamente –. La pizza era quella preferita dello zio Andrea, me lo ricordo. Allo zio Luca piaceva sempre tutto e beh… anche a me piaceva sempre tutto.
Era una realtà piccolina.
Fino a che la mia età non si è trasformata in una doppia cifra, io vivevo praticamente in quel piazzale. Probabilmente sono cresciuta troppo in fretta, perché nel giro di un battito di ciglia mi sono ritrovata a vivere fuori Piazza dei Miracoli e poi, un altro battito di ciglia dopo, senza neanche averlo scelto, mi sono ritrovata nuovamente nel mio paesino.

Il mio paesino non è più lo stesso.

E’ cresciuto come me. Non è più intimo come era a quel tempo.
La fabbrica va ancora avanti, immagino che anche il panaio passai ancora. Ad oggi anche in estate non mi sveglio più in quel lettino, da quando sono tornata da Pisa mi sveglio nella mia casa, nella testa di una donna che va a lavorare e che cerca il suo posto nel mondo.
In fabbrica vado con estrema rarità, ma si sente ancora lo stesso odore di acetone di sempre. Gli zii forse hanno un po’ più fretta di prima, vogliono tornare presto dalle loro famiglie. La nonna non lavora più, l’età si fa sentire anche per lei. Sta spesso sola in casa, o annaffia i vasi di fiori nel piazzale, accompagnata dal cinguettio degli uccellini. Il gallo ha smesso di cantare: il pollaio dall’altro lato della strada ormai è pieno solo di tante erbacce.
Gli anni passano, e raramente mi prendo cinque minuti per cercare quegli odori, quei suoni.
Non so cosa sia davvero rimasto del mio piccolo paesino: vicino alle nuove strutture i vecchi edifici sono sempre gli stessi, ma non riesco a togliermi dalla testa l’idea di non essermi ritagliata il giusto tempo per apprezzarlo davvero.
Ora che quel tempo lo vorrei, lui scappa tra le dita come l’acqua, come tutte le persone che non ci sono più.